Nathan Fake non ha certo bisogno di presentazioni. Il suo splendido esordio, “Drowning In A Sea Of Love”, è stato negli ultimi tre anni uno dei dischi più saccheggiati dai remixer della Terra. Impossibile pensare a qualche dj che non abbia spiaccicato sul proprio piatto una “Charlie’s House” o una “Bawsey”. Un’indietronica eterea, luminosa, sognante, pulsante, capace di rapire l’intera platea di beatmaker londinesi, senza ricorrere a eccessivi tranelli. Dai primi timidi passi, mossi nei localini filo-house di Londra, e dal groove mega-danzante di "Outhouse" e “Dinamo”, Fake ha gradualmente assunto una singolarissima coscienza voltaica. Difatti, se "The Sky Was Pink", restaurata da quel mago di James Holden, ha letteralmente illuminato il pianeta dei cubi, e se quella cosa chiamata trance music è rigenerata di scatto sotto il sole cocente dei festival catalani o nel ghiaccio teutonico ad alto amperaggio minimale, “Drowning In A Sea Of Love” ha praticamente catechizzato a nuovi vangeli i seguaci dell’elettronica più fanciulla, da “cameretta”.
Proveniente dalla contea di Norfolk, dall’aria sempre un po’ imbronciata, Nathan Fake ha girato con il suo flight case arcobaleno nei locali di mezza Europa, sbattuto come una "strumpalazza" da Berlino a Londra; le sue composizioni elettroniche hanno ristabilito in parte le coordinate generazionali di un’elettronica densa di acquerelli melodici, sinapsi kraute e visioni celesti. Un vero e proprio simposio, dove poter appagare i banchetti sintetici del recente passato, nonostante i pochi ingredienti adoperati nei vari impasti. Riconfermarsi dopo una lunga pausa, dunque, non era affatto semplice. E il qui presente “Hard Islands” è stato senza dubbio uno dei dischi più attesi degli ultimi anni.
Prima di addentrarci nell’opera, va anche detto che il ragazzo nel frattempo è diventato uomo, e l’esperienza acquisita nelle innumerevoli partecipazioni ai partydi mezzo mondo ha letteralmente trasformato l’ex-“rampollo” visionario della Border Community in un produttore maturo e consapevole del proprio timbro. Inoltre, è aumentata la necessità di virare a stratificazioni temporali pregne di elementi destabilizzanti. Tant’è vero che “The Turtle” spunta dal guscio come una scheggia impazzita: beat costantemente frastagliato, alternato a deviazioni sintetiche e battiti boreali in coda. Non poteva presentarsi opening track migliore. Smaltita la prima scossa, le tastierine cosmiche dell’adolescenza si riaccendono in “Basic Mountain”, mentre un vortice elettronico assume essenzialmente la stessa biodinamica degli esordi in “Castle Rising”, prima che le forze viscose al suo interno conducano a spirali emozionali irte di impalpabili rotazioni (“Narrier”). E’ musica che riflette le sue angosce in una danza di asimmetrie elettriche, e “Fentiger” fornisce senz’altro una veste technoide a questo sinuoso collasso.
Con “Hard Islands”, Fake ha semplicemente smorzato il suo assetto visionario, sincronizzando il groove con maggior sostanza e minor visibilio.
Qualcosa di raggiante e al tempo stesso illune.
06/05/2009