Il bianco lattice dei guanti da chirurgo e i mille colori di una kefiah appesa al ramo di un albero. Sono le due immagini cardine per inquadrare gli estremi della musica di James Holden. Un percorso ventennale che porta il musicista di Exeter da Ibiza al Marocco. Dai rave in spiaggia agli incontri mistici. E dalla musica trance a quella gnawa. Poste in copertina, rispettivamente su At The Controls e The Animal Spirits, le due visioni contrapposte scelte da uno dei maggiori talenti della musica elettronica del nuovo millennio racchiudono il senso stesso della sua instabilità artistica, il suo essere continuamente producer discolo, solo in apparenza appagato. Se la prima immortala il gesto che anticipa l’ingresso in una sala operatoria, dunque il profilarsi di una mobilità asettica, la seconda suggerisce un momento di quiete bucolica, quindi il raggiungimento di un’estasi interiore. Ma queste sono solo alcune delle variazioni a cui Holden ci ha abituati nel tempo. L’inizio della sua singolare parabola inizia nel 2000. Con un 12” intitolato “Horizons”, creato con il software Buzz e prodotto nientedimeno che dalla Sony, per interposta Silver Planet. James Holden ha appena diciannove anni. Ma dimostra già di saper maneggiare tempi e passi. Due tracce per un totale di dieci minuti, a sancire l’esordio nel segno di una progressive trance acerba ma già pregna di una visione, a metà tra cosmogonia ed esoterismo, che sarà di fatto la sua cifra stilistica, almeno prima della conversione spirituale, che avverrà soltanto quindici anni dopo, una volta stancatosi del dancefloor, ritenuto perlopiù estenuante, dalle dinamiche ripetitive.
James Holden si definisce in tanti modi: produttore, remixer, dj, capo di un’etichetta discografica, maestro di synth, leader di una band, ingegnere del suono, sviluppatore di software e tuttofare. Queste più o meno le anime di un musicista che dai remix di Madonna e Britney Spears decide di dedicarsi anima e corpo all’evoluzione di una label capace di raccogliere a sé i talenti elettronici meno allineati del nuovo millennio. Alle porte della Border Community si presentano infatti Nathan Fake, Kate Wax, Fairmont. Autentici cani sciolti alle macchine. Tra i pochi in quei primi anni turbolenti del nuovo millennio con una visione dilatata eppure precisa dell’elettronica nelle sue diverse sfaccettature indietroniche, come vengono definite dai più in quel periodo.
Tracce come “The Sky Was Pink” della punta di diamante Nathan Fake attestano l’avvento di una comunità estroversa, maledettamente interessante, che trova nel guru Holden una guida inedita, incapace di imporre e totalmente aperta a ogni nuova traiettoria, per una danza disallineata dal resto della scena dance.
Tra una nuova progressione verso uno spazio indefinito (“A Break In The Clouds”) e un volo interstellare a due con Ben Pound (“Kaern Turned”), nel 2006 arriva l’atteso debutto. Il titolo è già tutto un programma: The Idiots Are Winning è l’Ep per accantonare le tentazioni del passato e inquadrare una nuova forma di egocentrismo minimal. Si va dai cerchi in loop di “Lump” all’acid techno essiccata di “Corduroy”. E dall’isolazionismo marziano, quasi un Klaus Dinger che sale sulla Soyuz, al videogame rotto di “Idiot”. The Idiots Are Winning è un primo sguardo coraggioso. E contiene dentro di sé i semi di quell’idiosincrasia verso il macrocosmo dancefloor che sarà un po’ la cifra dello stile di Holden nella prima decade della sua carriera.
James Alexander Goodale Holden, così l’uomo all’anagrafe, vira verso la progressive electronic dei pionieri Didier Bocquet, Mark Shreeve, Zanov e Reinhard Lakomy con i corollari dell’Aphex Twin meno pacato. Mentre il dj ancora ventenne si rinfresca sulle spiagge ibizenche con set ai limiti della house più cerebrale, il visionario inquieto alle porte mette in piedi un autentico manifesto dell’elettronica degli anni Duemila. O meglio uno degli album mix più spettacolari degli ultimi vent’anni. Quattro copertine che sbirciano altrettanti fotogrammi del chirurgo in sala operatoria citato in avvio. O meglio, delle sue mani che indossano guanti sterili e si apprestano a un tenue "taglia e cuci". Mani espressive, quasi dotate di sguardi, sorridenti e beffarde nel prepararsi al "lavoro". Sempre con un occhio alla cartella clinica.
James Holden, che ora ha 26 anni, spinto dal suono corporativista in "Balance 005", sublima le sue competenze critiche e le ricostruisce a mo’ di expo music, ripescando tutto ciò che in qualche modo l’ha corrotto e folgorato nel corso degli anni. E così At The Controls diviene un mix-album, uno di quelli che tanto hanno fatto discutere in passato, per gioie e dolori presenti o per concettuali riluttanze predestinate alle manipolazioni. Non è stupido o retorico dire: "Qui è diverso!". No, perché il suono è come una stampante a getto e, pur giocando con le provenienze più disparate per anni e strutture, assume un senso di compattezza trance che stupisce. Non si sente l’odore marcio del corpo in attesa, tanto meno l’essenza di plastica delle copiature, ma tutto confluisce in ritmi clamorosamente in pompa sommessa. La manipolazione, in tal senso, è organizzata seguendo diverse procedure: si spazia dalla sovrapposizione congiunta di più campionamenti, ad algide e "timide" intromissioni electro-scratch in tenuta ambient. Diverse operazioni che confluiscono in un unico collage sonoro, petulante e ozioso, privo dell’autoreferenza che avrebbe strappato ogni singola cucitura, lasciando quei pochi fili sparsi nell’oblio delle manipolazioni distorte.
Queste riflessioni è come se fossero applicate a un "LateNightTales" di contorno, poiché, senza paura, si affiancano Harmonia (gruppo kraut-rock degli anni 70) e Holden stesso, passando per Apparat e Fennesz: diciamo che è un mix del proprio vissuto, senza paura (e inevitabilmente senza il rischio) di sbagliare. Gli anni che attraversano questa notte sono comunque quelli recenti, in prevalenza.
At The Controls è un calendario del 2000 e dei suoi figli misconosciuti, rivisti con acconciature da evento o abiti per l’occasione. Basta esserci per comprendere, ascoltare per godere, "osservare" per stendere i personali rigurgiti. C’è un inconfondibile progetto basilare, volto a diventare il "Music For Airports" di tempi infami per i cieli: sessioni nuvolose, schiamazzi notturni e pericoli di caduta sul sottofondo. Il tramite di tutto è la scelta, ovvio. La scelta di girovagare in origini parallele (Massive Attack, primo Aphex) per creare la serata unica e irripetibile: questo (doppio) disco è un concept sullo spazio progressivo, roba da far impallidire registi e spettatori.
Fin dalle prime sequenze il ragazzo mostra i segni della sua tenacia, della sua "senile pazienza" di non dover mostrare tutto e subito; è per questo che la sua vera identità, i suoi spazi, appaiono quando i festeggiamenti sono già in corso da un pezzo. Le sue creature, "Lump" e "10101", sono poste al centro del primo disco, la loro funzione è quella di smobilitare le prime ondulazioni elettroniche, i primi segni di una fusione trance in continuo fervore, in continua espansione.
Holden compone con smodata costanza tutti i suoi giochi magnetici, montando/smontando le componenti come un bambino viziato che ha fretta di colmare la sua ludica irrequietezza; proprio quest’ultima trova un fedele compagno di banco nell’altro rampollo eccellente di casa Border Community: Nathan Fake. In "Charlies House" tutte le composizioni elettroniche creano un vero e proprio luna-park di suoni e colori, un intarsio frenetico di bozzetti infantili. Una volta cessata questa dolce corsa, tutto torna a una normalità più adulta, più riflessiva. E così il primo dei due capitoli si chiude in sordina, quasi sotto forma di contemplazione: Holden sceglie tre brani adatti ai titoli di coda, col finale provocatorio di "Rivers Of Sand", a nome Fennesz, una ventina di secondi di sottolineature, errori, echi di un low-fi che ci sarà fra vent’anni.Il secondo disco si apre con le vibrazioni di uno shock, rovistando in quelle belle cose che somigliano alla techno di Juan Atkins: mondi in preda ai sibili, ritmi delineati da mono-cellule, intermezzi primitivi. I suoi "interventi" caricano i contorni più che i centri e tutto è ricondotto, infine, a un caleidoscopio delle sale da ballo di tanto tempo fa. Ciò che lascia di stucco è la capacità di frenare all’improvviso gli istinti dei movimenti alterni, presentando la parentesi della calma apparente e stravolgendo l’efficacissimo folk di Malcolm Middleton ("Solemn Thirsty"). La musica è come se chiedesse un po’ di riposo, ottenendolo col conforto di uno stato d’animo che sa di non averlo mai realmente allontanato. Sì, perché la caratteristica evidente, e qui ci si riconduce a parole già dette, è proprio il relax che serpeggia nell’aria, persino in quella di talune accelerazioni. E non c’è momento più adatto per tirar fuori "Xtal", ovvero l’origine di un certo modo d’intendere le rivoluzioni.
L'arte del dj-kicks, del dj-set casereccio, tra carcasse di vinili consumati fino allo stremo e campionamenti ben custoditi, prosegue imperterrita tra comparsate sui cartelloni dei festival estivi di mezzo continente, mentre l'attitudine a una qualsiasi forma di manierismo da masturbazione musicofila rimane costantemente dietro l'angolo. Dj-Kicks non tradisce le speranze e condensa le smanie dell’Holden “discotecaro”. Basta poi dare un'occhiata ai pezzi scelti per l'occasione per sentirsi sempre bene accolti. Il manipolatore frulla l'impossibile: dagli immancabili Snaith e Hebden - veri e propri lumi per l'ancora ragazzo - ai Piano Magic, passando per l'amico Luke Abbott e per la leggenda techno James Ruskin.
Insomma, non ce n'è uno/a fuoriposto. Tutto gira a meraviglia secondo la vocazione del momento. Così, "The Sun Smells Too Loud" dei Mogwai collassa in un trambusto di propulsioni atonali, disperdendo a gocce le proprie energie. I "morbidi" Piano Magic vengono fusi a meraviglia nel tic-tac introduttivo ("Wintersport/Cross Country"), mentre la disco-music mutante di William T.Burnett aka Grackle incalza cibernetica. Le mura tremano al passaggio di "Olde Wobbly" dei Mordant Music, prima che l'allineamento trance-space trovi il suo asse ipnotico nel binomio Maserati/Caribou, posti uno dietro l'altro secondo un coagulo ben organizzato di beat programmati e inserti glitch.
Chiudono il cosmic-synth tolkeniano dei misconosciuti Didier Pacquette, reso ancor più ancestrale dal buon James, e lo sconquasso noise di SS Pyramid Snake, a conferma dell'inafferrabilità selettiva di un maestro del software modulare e del collage a effetto.
James Holden non è più un ragazzino che divide il suo tempo tra gli studi di matematica e il djing più ricercato. Lo stesso The Idiots Are Winning pare ormai un ricordo lontano. Tra un set e l'altro, Holden perfeziona incredibilmente la propria abilità ai controlli. Ma soprattutto, dimostra di essere ormai diventato un uomo. O meglio l’uomo del dj-set. Il maestro del patchwork ad effetto. Una pallina pazza rimbalzata nelle migliori piazze d’Europa capace di stendere tori e vacche con manipolazioni da urlo ed eiaculazioni al laptop. Tuttavia, al talento di Exeter è mancato per troppo tempo quel disco più volte pensato e mai steso per davvero.
Inheritors raccoglie dunque le migliori intuizioni sonore annusate dal buon James nell’arco di questi sette anni vissuti praticamente nei migliori avamposti elettronici del pianeta. Per attribuire poi una qualche veste a questo suo secondo lavoro sulla lunghissima distanza, il musicista è dovuto scendere a patti con la propria cocciuta (e benedetta) impulsività artistica, registrando quasi in presa diretta le singole tracce, parimenti senza rinunciare ai panni dell’artigiano di un’elettronica mistificata sempre a proprio piacimento, che si evolve e si dimena puntualmente tra presente e passato.
La preziosa eredità lasciataci dai pionieri elettronici tedeschi assume quindi una centralità a tratti imperante. Holden riattiva così motorik (“Rannoch Dawn”) e raccoglie frattaglie spaziali sparse nella propria sterminata galassia sonora (“Sky Burial”). Si stringe forte alla propria navicella e atterra nella sua pista pompando con arguzia, esplodendo ritmicamente nel finale alla stregua del più tonico Hebden (“Renata”). Allo stesso tempo, gioca a fare il visionario terzomondista in “A Circle Inside A Circle” o l’androide nella parte centrale dell'album, vedi l’impalpabile “The Illuminations”, così come le astrazioni cosmiche di “Inter-City 125” e la sbilenca irregolarità di “Seven Stars”.
Ma James Holden è innanzitutto un sarto del beat e la sola title track mette in luce tutta la maestria nel saper coadiuvare trance alienata e cazzuto electro-scratch. La successiva “Some Respite” prova a riammorbidire i toni, quasi a cercare un punto di contatto tra la manipolazione più spontanea e la necessità di contorcersi bypassando le consuetudini, tra diramazioni psych e cervellotiche digressioni.
In coda, torna a farsi viva una certa coscienza (“Blackpool Late Eighties”) esternata mediante un morbido palleggiare con cassa dritta a rilento, mista a una sintetica ascesa in piena scia Meta.83 e Motiivi:Tuntematon.
Inheritors è un disco dannatamente impulsivo, ritmicamente inafferrabile, volutamente "grezzo" e sporco. Il manifesto di un produttore proiettato ben al di là degli spazi abitudinali, totalmente immerso in questo suo universo parallelo denso di progressioni trance, sequenze sintetiche, pattume spacey e sfuggenti piroette elettroniche.
Tra una selezione per Resident Advisor, un mix microhouse per Texture, l’indomito tuttofare inglese punta improvvisamente allo spiritualismo. E’ un’inclinazione che si rafforza durante i tanti viaggi in India o Marocco. Holden compatta la sua naturale propensione verso una quiete espansa, che traspare anche nelle tante sfumature new age che si insinuano come risacche nei suoi movimenti. Nel mezzo del cammin di nostra vita, per dirla con Dante, viene colto da un’esigenza che lo allontana definitivamente dal clubbing e lo porta, come un novello Deuter, verso la luce del trascendente, del corpo che rincorre lo spirito. Una fase nuova in cui subentra una strumentazione etnica che si affianca alle macchine, ai software.
Il primo approdo di questo nuovo viaggio è diviso in due atti in compagnia dell’amico di sempre Luke Abbott. Outdoor Museum Of Fractals/555HZ racchiude due omaggi al padre del minimalismo statunitense: Terry Riley. Il disco viene infatti presentato durante la celebrazione al Barbican Hall di Londra per l’ottantesimo compleanno del compositore americano.
La prima metà del piatto vede Camilo Tirado alla tabla, ed è un lungo trip che congiunge l’essenzialità della progressive electronic della primissima ora e il tribalismo indiano. I trentadue minuti di “555Hz”, il cui loop principale è settato appunto sulla frequenza di 555Hz, sono mera levitazione alla Florian Fricke. E’ la partitura che segna il distacco totale dal passato. La necessità di sorvolare tradizioni sconosciute, mondi finora alieni, per incasellare inedite suggestioni nella propria musica, sfoga nel “vagabondaggio” continuo di Holden, che si prende, si fa per dire, lunghi periodi sabbatici, sostando qui e là alla ricerca della vocazione spirituale perfetta. A catturare la sua attenzione è soprattutto il Marocco, con il suo bel carico di tradizioni antichissime. Un viaggio che lo cattura al punto da deviare l’idea di suono verso qualcosa di ulteriormente “altro”, specie se raffrontiamo ai patchwork elettronici cuciti con tanta parsimonia in passato.
Dunque, niente più frattaglie minimali, tentazioni spaziali, vocazioni acide. E via anche buona parte dei rimandi kraut e del sudiciume elettronico ad alto amperaggio ascoltato nell’accecante The Inheritors, con l’uomo nelle vesti del pifferaio magico alla continua ricerca di una possibile congiunzione astrale tra passo e presente. Per di più, il producer inglese sembra aver messo momentaneamente da parte anche le tentazioni annusate mediante la collaborazione con Luke Abbott.E così, a distanza di un anno da Outdoor Museum Of Fractals/555HZ, il fondatore della Border Community torna a farsi vivo assieme ai fidati The Animal Spirits, sintonizzando la propria arte combinatoria con questa formazione di assoluto spessore e vocazione world-jazz, composta dai vari Marcus Hamblett, Liza Bec, Lascelle Gordon, Etienne Jaumet e il grandissimo Tom Page alle pelli. Siamo dinanzi, quindi, a una commistione d’intenti che rimescola le carte sotto il piano esecutivo, ma che per certi versi prosegue la profonda ricerca artistica attuata negli ultimi tempi dallo stesso Holden; una dimensione terrena “nuova”, percepita a piccole dosi nelle varie esecuzioni dal vivo del capolavoro del 2013, e che lo proietta mediante le varie tracce di questo suo quarto lavoro a metà strada tra le cavalcate dei Gong di “You” - in atterraggio sulla Terra dopo il lungo viaggio sul pianeta omonimo - (“Pass Through The Fire”) e sinfonie proprie dello sciamanesimo magrebino più antico (“Thunder Moon Gathering”). Del resto, non stupisce che negli ultimi quattro anni ad attirare l’attenzione del musicista di Exeter sia stata la musica gnawa del rimpianto Mahmoud Guinia. Mentre l'album nasce ancora una volta da un'unica, estenuante session dal vivo effettuata senza overdub ed edit.
Ad arricchire poi le varie ripartizioni in scia spiritual jazz con micro-riflessi propri dello stile gnawa, è il carico modulare perfetto, posto nella title track da contraltare alle varie effusioni al sax fornite dall’ottimo Jaumet e alla ritmica perennemente incalzante e “selvaggia”; un crescendo che attesta la bontà di tale operazione e che quantifica al meglio la cifra stilistica raggiunta da Holden in questo suo nuovo cammino.
Ciò nonostante, pur mostrando un’ottima confidenza con tale universo strumentale, i ripetuti ascolti palesano qualche lecito dubbio circa la stabilità della nuova direzione intrapresa, e in alcuni momenti appare un po’ di sano manierismo. Di certo, Holden e i suoi spiriti animali fanno di tutto per condurre l’ascoltatore nel cuore pulsante di questa nuova oasi. Il non luogo del passato è ora spazio fruibile, percepibile. Tuttavia, la scelta di affidarsi a certo folclore risulta in definitiva meno potente e spiazzante della proverbiale elettronica dai risvolti trance talvolta clamorosi della prima metà della sua carriera. Manca quel pizzico di sana follia, lo sconquasso, il guizzo stordente e supremo raggiunto in quello che continua a rimanere ancora il suo assoluto capolavoro, l’acclamato The Inheritors.
La coloratissima kefiah gigante immortalata nella bella cover del disco, con la quale l’artista ha figurativamente avvolto il suo nuovo progetto, esprime appieno l’anima intrinseca dell’opera. E al netto di qualche dovuta considerazione circa la resa definitiva di tale operazione, la schiettezza con la quale Holden palesa tale nuova inclinazione resta comunque merce rara, soprattutto se accostata a tante altre produzioni-lampo odierne, adagiate sui medesimi piani esotici, ma in modo spesso perennemente autocompiacente. Il che non è affatto poco.
Nel 2019, Holden compone le musiche per il documentario A Cambodian Spring di Christopher Kelly, incentrato su un conflitto sui piani per lo sviluppo del lago Boeung Kak nella capitale cambogiana Phnom Penh. E' un esperimento che fonde minimalismo e new age in piccoli bozzetti, creati da Holden per le inquadrature di Kelly, che poco restituisce in un ascolto isolato, distaccato dalla visione del documentario. Tuttavia, non mancano piccoli lampi di luce, come nella brevissima "Solidarity Theme (Villagers)".
Le collaborazioni con il fisarmonicista svizzero Mario Batkovic, il clarinettista polacco Waclaw Zimpel, il maestro gnawa marocchino Maalem Houssam Guinia e il suo defunto padre Maalem Mahmoud Guinia continuano a tenere vivo e a espandere l’approccio mistico di Holden. Che raggiunge una meta tutta sua nel 2023. Che vadano a farsi benedire le diavolerie della tecnica. Via gps, smartphone, fotocamere. E via pure le compagnie aeree, i voli low cost, le guide a gettone. Per James Holden è tempo di guardarsi allo specchio, chiudere gli occhi e volarci dentro. Il polistrumentista, producer e disc jockey londinese si apre a ogni altra possibilità. Per la precisione: uno spazio ad alta dimensione di tutte le possibilità. Mica poco? Perché Imagine This Is A High Dimensional Space Of All Possibilities è un biglietto di sola andata. E l'invito che il musicista fa ai naviganti in ascolto lo lascia sottintendere.
L'opera si presenta dunque come un’odissea di suoni, ritmi e fiati messi in fila e a perdita d’occhio. Holden ne cattura una parte a ogni movimento per tracciare rotte "inedite". La bussola è, va da sé, il background acquisito in vent’anni di mirabolanti escursioni tra l’elettronica da intrattenimento e quella mentalista. Tra i rave di Ibiza e le dune del Sahara. Tra una tentazione cosmopolita e una deriva interstellare.
Dentro le dodici “soste” di Imagine This Is A High Dimensional Space Of All Possibilities c’è tantissimo: computer, sintetizzatori, organo, violino, piano, tabla, chitarra, gong, campane. Ma soprattutto c’è la voglia di lasciarsi andare, verso un universo immaginario. Una destinazione che ha nei personaggi raccolti in cerchio da Jorge Velez in copertina il suo check-in figurato. "Volevo - racconta Holden - che questo fosse il mio disco più aperto, non cinico, ingenuo, indifeso, insomma l’album che volevo fare da adolescente". E aggiunge: “Ero solito bilanciare la mia radiosveglia su un armadio per catturare i deboli segnali Fm dei pirati provenienti dalla città più vicina, sognando come sarebbero stati i rave quando finalmente avrei potuto scappare e diventare un viaggiatore new age”.
New age, quindi. E qui ci sarebbe da citare un altro universo. Parallelo, s’intende. Quei pianeti che James Holden ha sondato nel corso degli anni, passando dalle distese di Terry Riley alle onde di Aphex Twin. Ma si potrebbero tirare in ballo anche oasi meno note. Insomma, porti poco frequentati. Sarebbe opportuno, infatti, pescare dallo spazio alcuni dischi che come Imagine This Is A High Dimensional Space Of All Possibilities avranno sempre il cosiddetto dono dell’ubiquità nel panorama elettronico più o meno sperimentale. Eccone alcuni, già citati poc’anzi, da epoche sommerse: “Voyage cérébral” di Didier Bocquet, “Firemusic” di Mark Shreeve, “Silver Apples Of The Moon” di Morton Subotnick, “Synthesist” di Harald Grosskopf, “Beam-Scape” di Peter Mergener e Michael Weisser. E, a chiudere, “Der Traum von Asgard” di Reinhard Lakomy.
Torniamo però a Imagine This Is A High Dimensional Space Of All Possibilities. Alla sua essenza. A quello che Holden vorrebbe emanare. Al foglio di viaggio di cui sopra. A iniziare dalla ciurma, composta da membri della variante live degli Animal Spirits: il batterista amico di lungo corso Tom Page, il percussionista Camilo Tirado, il tuttofare Marcus Hamblett, per l’occasione al contrabbasso e alla chitarra, e il sassofonista Christopher Duffin (Xam Duo e Virginia Wing). Tutti insieme a bordo appassionatamente, per inanellare sensazioni tra le più sparse. Si va dalle evocazioni sciamaniche in “The Answer Is Yes”, che rimandano alla fantasia dei Popol Vuh digitalizzati fase “Spirit Of Peace”, alla sospensione ambient alternata a tonfi metallici di “Infinite Fadeout”. E dalle progressioni in scia Berlin school di “Trust Your Feet” al videogame senza quadri di “You Can Never Go Back”. In “Contains Multitudes”, James Holden si spinge addirittura oltre, creando una variante discotecara della pc music di A.G. Cook.
Negli anni 70, Georg Deuter si trasferì in India, a Poona, per mutare in Chaitanya Hari, diventare così neo-Sannyasin, un allievo di Bhagwan Shree Rajneesh, noto ai più come come Osho, e scoprire, infine, che, dopotutto, “il silenzio è la risposta”. Per James Holden cambiare pelle è stato più semplice: gli è solo bastato riflettere su sé stesso per dar vita a una sua nuova consapevolezza.
“L’album - afferma ancora in sede di presentazione - è pieno di cose con cui ho fatto i conti: ho sempre odiato il richiamo di un colombaccio, sinonimo di noia senza fine del fine settimana suburbano. Nonostante abbia imparato sia il pianoforte che il violino, non li ho mai usati nei miei dischi. Mi vergogno del mio modo di suonare e sono spento dalle loro connotazioni, ma sono felice che ci siano entrambi. E per un po', da metà degli anni 2010, non riuscivo più a sentire la musica dance. La sola grancassa mi faceva balzare verso il pulsante salta, ma ho ritrovato la strada per tornare a quello, reclamando le parti che mi piacevano: l'ipnotismo, l'utopismo, l'ampia libertà interculturale. Per lasciare, in definitiva, dietro di me ciò di cui non ho bisogno”.
*Si ringrazia Angelo Franzese per i contributi di "At The Controls"
The Idiots Are Winning(Border Community, 2006) | ||
The Inheritors(Border Community, 2013) | ||
Outdoor Museum Of Fractals / 555Hz(w/Luke Abbott)(Border Community, 2016) | ||
The Animal Spirits (w/The Animal Spirits)(Border Community, 2017) | ||
A Cambodian Spring - Ost | ||
Imagine This Is A High Dimensional Space Of All Possibilities (Border Community, 2023) |
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