Più che mai attuale, ahinoi, un album imperniato su canzoni blues riconducibili al periodo della grande depressione americana. Tale è il nuovo album del quasi ottuagenario Ramblin’ Jack Elliott, nato a Brooklyn col nome di Elliott Charles Adnopoz il 1° agosto 1931, da una famiglia di origini ebraiche che stava stretta, troppo stretta a un ragazzino che voleva essere un vero cowboy, specie dopo avere assistito ai rodeo che venivano messi in scena al Madison Square Garden durante la sua infanzia. Fuggito quindicenne di casa dal padre, medico che lo voleva medico, girò le sponde del Mississippi proprio al servizio di un Rodeo itinerante. Poi l’incontro con Woody Guthrie cambiò per sempre quel ragazzo.
Questa brevissima biografia per rendere omaggio a una vita che già parla sufficientemente chiaro: così sovente la vita dei poeti è analoga alle loro opere e si erge a medesima statura.
Questo album che segue di tre anni il precedente debutto di Jack per la Anti, lo trova fuori dal contesto country-folk che lo ha visto protagonista per una vita, in favore del blues. Devo anzitutto osservare che la presenza nell’album di Van Dyke Parks, vero Re Mida della musica americana, dona la consueta, mitica, nobiltà all’intero lavoro, prodotto con lucida visione da Joe Henry.
Autore e produttore hanno assieme indagato fra le canzoni blues scritte prima della seconda guerra mondiale. Canzoni cupe e disperate, figlie della grande depressione, canzoni in bianco e nero come il film “The Grapes Of Wrath” (Furore) di John Ford, che con piglio poetico seppe narrare il dramma sociale di quegli anni terribili nell’America rurale.
Gli arrangiamenti sono ammalianti ed evocativi, e alcuni blues, come “Death Don’t Have No Mercy” del Rev. Gary Davis, sono resi come danze macabre, specie per merito del pianoforte polveroso di Van Dyke Parks. La voce di Jack è ruvida di tabacco, sabbia e whiskey. La sua chitarra acustica, che esprime da sempre un naturale vibrato che sa di praterie e saguari, qui è ben prestata ai drammi simbolico-sociali del blues, quello vero.
In “Rambler’s Blues” di Lonnie Johnson, mitico bluesman di New Orleans, Joe Henry ha saputo creare il tipico incedere stomp-blues che caratterizza il suono di quella città, presente specialmente nei cortei funebri che presto si trasformano in feste multicolorate. Una bottle-neck guitar dal sapore cooderiano introduce il classico di Blind Willie Johnson, dal sapore quasi liturgico, “Soul Of A Man”. Il suo caro country affiora timido nell’arrangiamento ironico di “Richland Women Blues”, canzone del “mitico” Mississippi John Hurt. Dark, invece, le terribili atmosfere di “Grinnin’ In Your Face”, disperato blues di Son House, introdotto da un basso e dal suono aguzzino di un triangolo: poi il piano, strumenti che vengono schiacciati appena entra la voce di Jack. Mandolini trillanti e pianoforte jazzy in “Rising High Water Blues” di Blind Lemon Jefferson.
Un disco di blues moderno come da anni non se ne sentivano; raro e sincero, profondamente ispirato, per Ramblin’ Jack Elliott che la sua esistenza ha riempito di vita vissuta fino in fondo, in una storia che di una certa America sembra emblema. Un punto di riflessione. Now you’ve got the blues on your feet, man...
29/04/2009