Non è certo più una notizia il fatto che il cantautorato (più o meno) folk al femminile sia fonte inesauribile di piacevoli scoperte; questa volta si è, però, in presenza di uno spunto estremamente "marginale" rispetto agli abituali circuiti di produzione e diffusione, trattandosi non solo di un'opera autoprodotta (e nondimeno curatissima nella sua confezione), ma soprattutto di un'artista del tutto aliena da qualsiasi tipo di autopromozione che non sia la semplice offerta di qualche brano in ascolto sulla sua pagina Myspace.
Lei risponde al nome di Allysen Callery, vive nel Rhode Island e "Hobgoblin's Hat" è già il suo secondo disco, che segue di due anni l'ancor più oscuro debutto "Hopey".
Non si pensi, tuttavia, all'ennesima cantrice del folk appalachiano, poiché i plausibili riferimenti artistici, le timbriche delle sue interpretazioni e le stesse componenti strumentali delle dieci canzoni racchiuse nell'album conducono a ben altri "luoghi" stilistici, oltre che geografici. In "Hobgoblin's Hat", infatti, Allysen Callery coniuga con grande eleganza le sue fascinazioni per il più classico folk britannico con ambientazioni trasognate e una sottile vena psych, che, unita alla sua voce sinuosa ed elegante, avrebbe potuto fare la gioia di un certo Dave Roback. Un ruolo fondamentale per il conseguimento di tale risultato va certamente riconosciuto al produttore e polistrumentista Myles Baer che, suonando chitarra elettrica, contrabbasso e hammond, ha donato un'aura di ancor più arcana magia ai brani di Allysen Callery.
Nascono così dieci canzoni ovattate, visionarie, evocative, che traducono in compunta forma melodica le narrazioni della poliedrica artista americana (la quale peraltro si diletta con successo anche nella poesia), incentrate su macabre storie di guerre, contemplazioni bucoliche stagionali e qualche imprevedibile accenno fantasy, testimoniato anche dal titolo del disco, ispirato alla saga dei Moomins. Eppure, dall'intimo incipit "Tiny Armageddon" sembrerebbe naturale pensare a uno dei tanti dischi di essenziale cantautorato al femminile, invece fin da subito la voce vellutata e sandovaliana di Allysen mostra di trovarsi a proprio agio a fluttuare su sottili brume psichedeliche, che avviluppano stille melodiche acustiche e uniformi note di organi vintage (oltre all'hammond si affaccia anche il moog) e di riverberi quasi impercettibili, ma più che sufficienti a creare l'atmosfera.
Benché non manchino, nel corso del lavoro, più limpidi quadretti bucolici, quali quelli disegnati dai delicati rituali femminei della title track e dai sospiri che costruiscono la melodia di "Button Boots", la sobria scrittura e le interpretazioni della Callery risultano ancor più efficaci quando si trovano alle prese con temi e ambientazioni trascendenti ("Vincenzo Part I"), popolate da incubi da esorcizzare ("Grey Wolf"). Leggermente meno riusciti rispetto al complesso del lavoro risultano i più espliciti tentativi di un evocativo psych-folk ("Little Star" e "Mr. Moonlight"), per fortuna prontamente riscattati dall'accoppiata che suggella il disco con visioni irreali che sanno di nebbia e rugiada. Insomma, vi è più di un buon motivo per avventurarsi nei boschi del Rhode Island per scoprire una nuova e affascinante voce femminile e, soprattutto, un'artista dalla spiccata sensibilità, che trova la propria realizzazione semplicemente scrivendo musica e poesie, anni luce distante da ogni tipo di "scena" e dalle logiche del mercato discografico, ancorché indipendente.
24/11/2010