Osservate molto attentamente la copertina di questo disco, perché è la migliore descrizione che se ne possa dare. Clubroot II è l'album che scaglia il dubstep nelle orbite siderali, che lo porta via dai club, dalle stanze, dalle metropoli e lo trasporta nel regno della pura estasi contemplativa.
Nelle mani del venticinquenne Dan Richmond, i beat marmorei tumtumtùmpa che hanno segnato gli ultimi anni dell'elettronica inglese si sfaldano in un pulviscolo imprendibile, e i bassoni più fondi e toracici evaporano in una nube di synth lattiginosi. L'intera costruzione dell'halftime si dirada in uno sciame di corpuscoli, uno stormo in perenne scomposizione e riconfigurazione, impossibile da gestire con un colpo d'occhio.
Ma attenzione: non si tratta di musica cerebrale, ostentatamente destrutturata. Al contrario, quella che riaffiora dai solchi del disco è l'anima visionaria che fu del capostipite El-B e poi di nessun altro. Suoni e atmosfere sono pervasi di immaginario fantascientifico, proiettano in uno spazio profondo che lascia intendere enormi balzi tecnologici... Eppure, di astronavi, astronauti ed effetti speciali non c'è l'ombra. Domina invece una calma glaciale di flash stellari e transiti celesti. I ritmi procedono leggeri e geometrici in un gioco di ricombinazioni che sembra non prevedere intervento umano, e le emozioni che smuovono hanno l'immediatezza e l'intensità che solo stupore per la natura riesce ad avere. Senza alcun bisogno di pestare, l'attacco simultaneo di cassa e basso in "Closure" è un rush che entra diretto dalla pancia e in un istante prende la testa: pura fisiologia, nessun sentimento o immagine terrena.
Che fine ha fatto l'elemento umano? Anche solo quel fantasma soul che ha sempre aleggiato sulle produzioni di Burial, evidenti ispiratrici di questo dubstep cosmico: dov'è andato? In realtà, c'è ancora. E non è nascosto: piuttosto, è intrappolato nelle maglie astratte e diradate di questo panorama alieno. È una traccia, un'eco, una voce smorzata; una pennellata d'archi più languida del solito. E poi i synth, quel suono perlaceo che riporta in vita tutta la disperazione e la grandeur intergalattica dei VNV Nation e del loro "Empires".
Forse è ancora l'album stesso a fornire l'immagine più adatta per l'aura che lo avvolge, nel titolo che chiude la tracklist: "Cherubs Cry". Forse il pianto di immateriali angeli post-umani, che vorrebbero riavere indietro la fisicità abbandonata ere prima. È una frase degna del peggior autore di fanfiction asimoviane? Ascoltate il disco, poi ne riparliamo.
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25/02/2011