Succede ogni volta che ascolti una canzone di David Thomas Broughton: chiudi gli occhi, e ti sembra di ritrovartelo davanti, lui, chioma fulva, atteggiamento fiero, sguardo severo e penetrante, di quelli che ti scrutano a fondo e ti trapassano da parte a parte. Una presenza misteriosa, dotata di un fascino tuttavia così irresistibile che sottrarglisi parrebbe quasi un insulto. E potete scommetterci quanto volete, ma alla fine ad averla vinta sarà lui, restare indifferenti a un richiamo così ostinato è impossibile.
Non servono di certo cori da sirena a irretire l'ascoltatore per un personaggio come Broughton, cantautore inglese che con "Outbreeding" torna sulle scene dopo un lungo periodo di assenza. Non servono, perché è fornito di uno strumento ben più peculiare con cui circuire eventuali prede. Provate a immaginare un ipotetico incrocio tra lo sconfortante crooning del più recente Scott Walker e la vibrante vulnerabilità di Antony, e più o meno vi potete fare un'idea del singolare baritono dell'artista, ostentato ma mai pretenzioso, un tramite unico ed efficacissimo utilizzato alla perfezione negli undici brani della raccolta.
Già in passato (specialmente nel buon "The Complete Guide To Unsufficiency" del 2005) il nostro aveva dato un rilevante assaggio del suo talento vocale, è però col suo ultimo lavoro che dà una completa dimostrazione delle sue capacità, mettendole al servizio di una dimensione stilistica totalmente rinnovata, volta ad abbracciare una fetta più ampia della sua complessa indole.
Gioca e si mette in gioco, senza alcuna paura: piega e contorce le sue interpretazioni abbandonando la sensibile filigrana del cantastorie d'altri tempi. Il suo cantato si colora di molteplici tonalità, che ne colgono ogni possibile sfumatura. Il mantra angoscioso della splendida "Onwards We Trudge", la turbata morbidezza di un'istantanea come "Ain't Got No Sole", le enfatiche declamatorie di "Nature" ed "Electricity" evidenziano una voce padrona di se stessa, assolutamente cosciente di essere, spesso e volentieri, a un passo dalla farsa.
Non sfuggono a tanta esuberanza nemmeno le sovrabbondanti strutture musicali, sature e stravaganti. Il folk di Broughton, sin dai suoi primi vagiti, ha infatti in pochissime circostanze assunto le caratteristiche di un racconto intimista accompagnato dai soli caldi accordi della chitarra, anzi ha teso a privilegiare una visione sincretistica che oltre allo scheletro di base abbracciasse un'estesa gamma di scelte musicali. Le composizioni così si irrobustiscono grazie all'uso di tastiere e tastierine, talvolta tanto effettate da avanzare inedite possibilità dream-pop nel carniere dell'artista ("Potential Of Our Progeny"). Altrove, l'uso di una parca elettronica affianca i bizzarri intrecci melodici degli episodi più acustici del lotto, insinuandosi scherzosa nelle fitte trame delle canzoni.
Spesso però la ricerca della costruzione stratificata finisce coll'intaccare la nitidezza di una scrittura puntuale e decisa, figlia di un songwriter navigato, consapevole dei mezzi a sua disposizione. Troppo ingenuo sarebbe cercare di scorgere in un procedimento simile la semplice voglia di tradurre in musica i risvolti più reconditi del temperamento viscerale dell'artista.
A ben vedere, con i brillanti testi alla mano (messi integralmente a disposizione nel sito ufficiale), ciò che si coglie è che il tutto assume i connotati di una pungente, quanto amara, (auto)ironia, ben percepibile nello spiazzante attacco in odor di samba di "Apologies", ma soprattutto, nella conclusiva baraonda a titolo nomen-omen "Joke", in cui finalmente si svela l'intento canzonatorio dell'intero progetto. E mai scherzo, in tutta la sua maestosa preparazione, è stato così gradito.
09/02/2012