Rami contorti che sembrano prendere vita,
atmosfere glaciali, echi spettrali da cui provare a fuggire, in un bosco tortuoso
e sconfinato, senza alcun colore se non un viola gelido e piangente.
Benvenuti nel mondo degli Esben And The Witch, trio di Brighton con un nome
ispirato a un noto fairy tale danese.
Un mondo a tinte fosche, animato da una nostalgica vocazione a un romanticismo quasi
religioso e da un compiaciuto gusto del tetro, tra simboli esoterici, incantesimi
e ambientazioni sospese tra il fantasy
e il noir.
Questo è il fascino mistico di "Violet Cries", il loro album d'esordio. Rachel Davies si
propone di essere l'ennesima streghetta, nella lunga storia delle
contaminazioni gotiche in ambito pop. Il suo è un canto severo, a volte
liturgico, ma sempre freddo, quasi anestetizzato e dolente. Dream-pop il loro o piuttosto nightmare-pop, come essi stessi amano
definirlo? Questi Esben si collocano precisamente al confine tra tipiche
suggestioni dreamy, dall'incedere
languido, colmo di escursioni oniriche, quasi sospese nel nulla (leggi Cocteau Twins) e
divagazioni citazioniste radicate in luoghi ancestrali, tra mito e leggenda, che
sembrano fatti della stessa materia degli incubi (leggi l'immancabile, quando
si tratta di dark-pop al femminile, Siouxsie). Un
sottobosco completato dalla freddezza quasi avvolgente di sonorità non troppo
celatamente bjorkiane, e da quel
fare sempre dimesso e cupo à-la Portishead, anche se,
relativamente a entrambi i riferimenti, qui l'uso dell'elettronica è dosato al
minimo.
Lugubri rintocchi, lontani e poi vicini, pulsazioni sempre più opprimenti, che sfociano
in un caos squarciante e vorticoso, aprono l'iniziale "Argirya", per poi
trastullarsi nel canto etereo e tormentato della Davies. Tensione allucinante
che si quieta senza troppo tranquillizzare. L'epica cadenza dell'austera
"Marching Song" è trepidazione ansiogena, dramma, pathos. Liquide note
con chitarra à-la Red House
Painters aprono la celestiale "Marine Fields Glow", mentre "Light Streams"
è il pezzo più drammatico e teatrale del disco, con i suoi impetuosi
andirivieni, le sue mutazioni inafferrabili, e quella voce spaventata, quasi da
invocazione.
Le pulsazioni minimali tintinnanti tra riverberi sfuggenti e obliqui, come sinistre folate di
vento, fanno assomigliare "Hexagons IV" a un oscuro rituale che si consuma
lentamente fino a sublimarsi con insana e convulsa agitazione in "Chorea",
prima di piombare nel baratro. La nebbia non accenna ad andarsene, e così anche
"Warpath", con quel riff quasi regale, sembra sdoppiarsi magicamente,
come aria evanescente. La destrutturazione prosegue in maniera ancora più
violenta in "Eumenides", i cui pezzi si compongono e ricompongono come magma
disorientante, tra salmodie quasi litaniche, glitch spiazzanti e
travolgente chiusura electro. La
desolazione di ciò che resta è raccontata con elegante mestizia nella
conclusiva "Swans", sorta di epilogo in languida dissolvenza, tra redenzione e
disperazione.
"Violet Cries" è un disco dal fascino quasi segreto, mitologico, ricco di atmosfere
incantate e inquietudini remote ma sempre vive.
01/02/2011