Con il loro album di debutto i californiani Girls sollevarono parecchia polvere, grazie alla travagliatissima biografia del biondo leader Christopher Owens (che sembrava appena uscita dalla penna di uno sceneggiatore psicotico alla Gus Van Sant) ma soprattutto grazie a una letale mitragliata di canzoni e struggenti motivetti intinti nell'inchiostro sixties più viscoso, frammisto ad ansie e romantiche claustrofobie da bottega indie-pop.
Dopo l'intermezzo di un Ep dal titolo sin troppo eloquente ("Broken Dreams Club"), il gruppo continua nel nuovo lavoro a spennellare un feuilleton delicato e agrodolce che illumina con tratto plastico (nonché vagamente melò) un ombroso destino di pene d'amore e solitudine inconsolabile (si ascolti la lunga preghiera lennoniana di "Vomit"). Nel farlo, canzoni come "Just A Song" (tra le migliori), "Alex" (bellissima) o "Jamie Marie" coniugano l'angst sessuale e il misticismo metropolitano dei romanzi di J. T. Leroy o Jim Carroll con la magniloquenza retorica di una big band americana anni Settanta, volutamente inattuale e ricostruita pezzo per pezzo con precisione semiotica a dir poco ossessiva: i giri di valzer da radiofrequenze pomeridiane della lacrimevole "Love Like A River", il country seppiato di "Saying I Love You" o la jam younghiana a tema libero incastonata al centro di "Die", tutto concorre nel rendere l'album una sorta di stregato juke-box (all'idrogeno) rimasto acceso da quarant'anni sulle stesse canzoni (che potrebbero essere anche le nostre).
La nuova trinità di "Father, Son, Holy Ghost" si palleggia dunque con grazia malcelata tra i vocalizzi costelliani di Owens e arditi intrecci strumentali (i leggiadri assoli alla Harrison di "My Ma" o il groviglio dissonante che inghiotte i dubbi della già citata "Vomit"), sempre tesi a tratteggiare la giusta ambientazione poetica nelle orecchie dell'ascoltatore. Solo in questo modo Owens stende, riga dopo riga, il romanzo di se stesso, la pantomima vagamente pornografica del proprio ego semidistrutto, mescendo ricordi di nichilismo grunge, la cenere ancora tiepida dei sussidiari infuocati di Husker Du o Replacements e una certa nostalgia per un'America forse migliore o forse no, quella, per intenderci, del grande risveglio post-woodstockiano.
Al tempo stesso orfano capriccioso e dolcissima prostituta drogata, Christopher Owens (al pari del collega Bradford Cox) non sembra saper fare altro, nella vita, che raccontare senza requie la storia contorta della propria redenzione, offrendo una verità che rischia già di farsi mito nel mito. Di questo non si può che ringraziarlo.
11/09/2011