Dovevamo aspettarcelo. Una band prolifica - sette album in cinque anni -, capacità d'esecuzione sufficienti a permettere loro di spaziare tra decenni di musica (con occhio particolare agli anni 60 e 70, dal blues al soul) e il vizietto di confezionare ritornelli da sing-along facile: prevedibile il temuto "contratto con la major", in questo caso la Atlantic.
Niente da recriminare per la già corposa fanbase dei Portugal. The Man: questo ha significato mezzi in più e la possibilità di collaborare con John Hill, superproduttore di molti degli ultimi successi pop, tra cui quelli di M.I.A. e Shakira.
Non solo, quindi, riffoni belli rotondi a incorniciare il volubile falsetto di John Gourley, ma synth, effetti vocali, un coro da soul-star ("All Your Light (Times Like These)") e grandi spazzate d'archi ("So American"). Il glam del Duca Bianco si attualizza così attraverso spessi beat artificiali e cori angelici ("You Carried Us (Share With Me The Sun)"), che estremizzano con un sound ipertrofico i virtuosismi melodici e strumentali della band.
È questa bulimia di fondo, più che lo stile della band e la sostanza delle canzoni, che rende "In The Mountain In The Cloud" un'orgia ipercalorica, digeribile solo a tratti. Il singolo "Got It All (This Can't Be Living Now)" è un esempio lampante: canti, controcanti, assoli e riff e la solita pirotecnia violinistica, brutto vizio delle uscite più mainstream del folk-rock a stelle e strisce, tra le quali "Infinite Arms" dei Band Of Horses. Ma anche l'ibridazione coi TV On The Radio di "Senseless" dice molto sulla riuscita del disco.
Nonostante le velleità da jam-band, le canzoni di "In The Mountain In The Cloud" si ritrovano compresse (non a caso uno dei migliori pezzi è il più lungo, la finale "Sleep Forever"), pillole di steroidi per un pubblico incontentabile. Ma forse siamo noi a non capire un disco "così americano".
05/08/2011