Si ha un bel dire: l'"apertura mentale", "non farsi influenzare da ciò che è stato", "facciamo piazza pulita dei pregiudizi". Per molti di quelli che rimasero stregati dai sommovimenti tellurici di "Everything All The Time" questo "Infinite Arms" rappresenterà, probabilmente, un duro ritorno alla realtà. Eppure, provando a sondare il disco con mente vergine, per quanto possibile, si scopre che la Band Of Horses è cambiata, più di quello che sembra.
Senza affrettarsi a definire questo cambiamento uno scadimento "ormonale", già cominciato con "Cease To Begin", della purezza della musica del gruppo, "Infinite Arms" suona anzi piacevolmente disimpegnato, senza pretese se non quelle di tratteggiare qualche melodia più o meno trascinante e dipingere innocui quadretti di ingenuo romanticismo. Scomparsa la fretta di replicare a "Everything All The Time", la Band Of Horses si riconsegna al giudizio del pubblico appagata e sorniona.
Il nuovo disco del gruppo, della cui uscita si rincorrevano notizie da almeno un anno, suona infatti come una gioiosa liberazione dalle aspettative che l'esordio aveva indotto nel pubblico; "Infinite Arms" non è altro se non la riunione di musicisti appassionati, forse neanche troppo affezionati ai connotati della band, insieme per suonare senza la preoccupazione di accattivarsi i favori dei fan.
Non pochi di questi ultimi (tra di essi chi scrive) saranno rimasti di sasso, la prima volta che il motivo gonfio di testosterone di "Compliments", singolo di lancio, li ha investiti col suo ritornello roboante (in fondo gradevole, a dirla tutta) e la sua linearità grossolana.
Ci sono tutti i crismi, insomma, per far inorridire il pubblico più intransigente, quello che avrà tra le sue certezze l'appartenenza di questo disco al mucchio delle peggiori pacchianerie. E, in effetti, la pomposità dell'accompagnamento d'archi dell'iniziale "Factory" suona davvero pacchiana, un forse inutile vezzo che ci sarebbe aspettati da tutt'altro disco, uno di Neil Hannon, per dirne uno (con ben altri esiti, s'intende). Si ha l'impressione, in fondo, di essere tornati ai tempi d'oro del britpop, melodie zuccherose addobbate con abiti spavaldi e una totale assenza di spigoli; il tutto reincarnato, però, in una band vestita di camicia a scacchi e vaqueros.
Una sensazione di "magniloquenza emotiva" che traspare da tutta la prima metà del disco (non a caso quasi del tutto in maggiore), dall'ormonale cowboy-rock di "Laredo" alla coda fin troppo ammiccante di "Blue Beard" (in tutti i sensi: "Take a little time, gonna roll the dice/ Taken for a ride, any normal life will do, too/ Find another way, try to break the ice/ Every day and night, the banana peels were true, true").
"Blue Beard" rimane comunque un buon pezzo, una sorta di serenata cullante, in cui la sempre sorprendente vocalità di Bridwell si sposa mirabilmente con gli scrosci di chitarra e piatti che lo accompagnano. Risultato replicato nel volteggio primaverile di "On My Way Back Home", nella cui delicata melodia Ben pare seguire le orme del cofondatore della band, Mat Brooke. Il parallelismo con i Grand Archives di Mat rimane percepibile in realtà per tutto il disco, per la fusione tra pop anni 60 ("Dilly") e soffici "lenti" a base di pedal steel ("Older"). Il continuo ricorso ad armonizzazioni e coretti - arricchimenti di cui, peraltro, la voce di Bridwell, non ci stancheremo di ripeterlo, non ha bisogno - risulta inevitabilmente stucchevole nello sviluppo del disco, a maggior ragione dato che, soprattutto nella seconda metà, l'ispirazione cala drasticamente.
La band si limita al ricalco, senza riuscire a riprendere il trasporto emotivo delle ballate di "Cease To Begin", cercando di supplire con arrangiamenti grandiosi allo scarso peso specifico delle composizioni (la title track è un esempio lampante). Un pezzo di power-pop sconclusionato come "NW Apt.", ritrovabile al più negli ultimi dischi di band alla deriva come gli Snow Patrol, è un campanello d'allarme ben in vista. Forse più inaspettato è l'arpeggio faheyano che introduce "For Annabelle", per il resto una ballata piuttosto innocua.
La Band Of Horses pare insomma seguire la parabola di band come i Kings Of Leon, dall'orgogliosa identità southern-rock al salto della barricata, dall'aspetto di simpatici contadinotti al tambureggiamento di video patinati. Chi vede le cose in questa maniera dicotomica si affretterà a definirli un'altra indie-boyband; in realtà Bridwell è, con ogni probabilità, la stessa persona di sempre, e "Infinite Arms" un lavoro di basso profilo, in cui le sue intuizioni melodiche sembrano scarseggiare rispetto al solito.
17/05/2010