Una volta assuntomi l'onere/onore di scrivere riguardo questa nuova fatica del veterano Thomas Köner, il "ripasso" approfondito del suo cammino artistico mi aveva rassicurato sulla possibilità di poterne scrivere in maniera quantomeno decente. Lo sperimentatore e artista visivo, infatti, ha alle spalle nove album in cui si è dilettato nelle più astratte esplorazioni del lato gelido e intangibile dell'ambient-drone, fino a giungere all'implemento massivo di field recordings nei lavori più recenti, fra cui l'ultimo "La Barca" - forse l'episodio più vicino al filone austriaco dei vari Ambarchi, Parlane, Watson.
Di tutto ciò, in questo nuovo lavoro, Köner pare farsene poco o niente. E così anche il sottoscritto, dopo aver ascoltato l'album per un'abbondante dozzina di volte, si rende conto di essersi cacciato in un pasticcio non da poco. E che uscirne ne sarà difficile.
Già, perché in "Novaya Zemlya" c'è davvero poco di cui scrivere, quantomeno nella maniera in cui normalmente si scrive di musica. E questo non di certo perché ci sia poca sostanza, o perché la carne al fuoco sia risicata; tutt'al più è la superficie di questo lavoro ad apparirci proprio così: vuota. L'ascolto in quanto tale, volto a captare suoni, melodie, rumori, in un caso come questo porta a poco o niente: è necessario un salto di concezione per carpire i nodi cruciali del disco, per afferrarli e poterli padroneggiare; e non è certo detto che questo "salto" produca risultati traducibili in parole, così come io stesso non sono affatto sicuro di essere riuscito a farlo.
Come fare, dunque, a parlare di un disco che ci appare silenzioso e quasi inudibile? Un disco che, anche se inserito in un impianto stereo con home theater annesso al massimo del volume, risulterà comunque meno forte del suono del proprio respiro? Potremmo provarci iniziando con una sequela di aggettivi, casuali o meno: astratto, intangibile, silenzioso, cosmico, sublunare, ecc.
Ma, oltre ad aver ripetuto almeno tre di essi già nelle prime righe, questo servirebbe a poco: non è un disco di aggettivi, questo "Novaya Zemlya". E men che meno è un disco emotivo: le definizioni di "algido", "freddo", "asettico" rischierebbero di provenire troppo dall'esperienza sensitiva per potersi adattare a delineare un prodotto simile. Ancor meno utile sarebbe una cronistoria del silenzio applicato alla musica, di "4'33''" di John Cage e quel che vi fu prima e dopo: siamo infatti di fronte ad un lavoro privo pure di coordinate temporali.
Così, dopo sforzi enormi, l'unico metodo che resta plausibile per provare a confabulare sull'argomento pare essere applicarsi con la stessa modalità con cui l'autore si è dedicato alla sua composizione, ovvero procedere per astrazione. Il che può significare tutto come niente. Il mio tentativo sarà quello che, fra i due, venga mantenuto un equilibrio il più possibile parziale: ciò che avviene nei tre lunghi brani che compongono il disco.
Il battito del cuore è il segno vitale presente in ogni mammifero sin dal momento della sua nascita: quando questi è ancora privo d'istinto o di ragione (in base alla razza), già c'è una forza che agisce nel suo ciclo biologico. È un po' quel che accade nei primi sei minuti della parte "1": un battito rarefatto, alterato nel suo seguire uno schema fisso, il cuore pulsante di un embrione musicale. Perché di tale si tratta, a tutti gli effetti, e di musica (inutile negarlo) non v'è traccia: c'è la sua intima essenza, quel suo tratto indissolubile presente ancor prima dei concetti stessi situati alla sua base. E sarebbe sbagliato lasciarsi pervadere dall'illusione di avere di fronte tracce musicali anche dopo l'ingresso fluente e discreto di un drone quasi impossibile da sentire: potrà trattarsi piuttosto di un abbozzo di forma vitale, un primo ritmo corporeo che prende forma in totale autonomia, senza controllo.
Abbozzo che prosegue, crescendo, lungo la seconda e la terza parte, prendendo coscienza e contatto con la natura circostante, che non è però il mondo in cui vivrà, quanto semmai ancora l'utero, la calda culla in cui tutto segue un ritmo prestabilito, dove il pensiero e la ragione non esistono, così come la vita stessa nella concezione di un essere venuto al mondo.
Si potrebbe chiamarle field recordings, e la definizione sarebbe azzeccatissima: non sono poi distanti da quelle di Jana Winderen o del Fennesz di "Plus Forty Seven Degrees", ma è il sistema di cui fanno parte, l'ipotetico ciclo vitale in astrazione nel quale sono inserite, a renderle "qualcosa di più".
Col procedere dei minuti, gli spigoli si fanno più intensi, le dissonanze più cacofoniche: l'embrione sta mutando, presto sarà troppo evoluto per potersi preservare in quel mondo organizzato nel quale è solo parte di un sistema, in cui la vita è, da un certo punto di vista, "vuota".
Ma il seguito della storia, "Novaya Zemlya" non ce lo svela. Ci hanno già pensato millenni di musica a delineare ogni singola, possibile variante futura dell'individuo di cui idealmente Köner prova ad interpretare l'unica fase di vita che, verosimilmente, mai questi potrà narrare né ricordare.
Giunti, dopo una disamina quasi assurdista, al fatidico momento del giudizio, si presenta nuovamente lo stesso problema: com'è possibile - proseguendo nella similitudine - dal punto di vista di un individuo già venuto al mondo, giudicare un tentativo di descrizione di quella fase della quale non permane neanche il più confuso ricordo?
La tentazione di tirarsi indietro si fa vorace, ma alla fine, anche qui l'unica soluzione plausibile è la ri-applicazione del metodo di cui sopra. E dunque, l'eliminazione di qualsiasi influenza esterna, si tratti di confronti, paragoni, proclamazioni, esaltazioni, stroncature.
Ciò che si può fare è invece basare il proprio giudizio su quel che l'album ha suscitato: poco in superficie, molto nel profondo. Quasi nulla a livello musicale (in fondo, quante volte tutto questo l'avevamo "già sentito"?), tantissimo a livello concettuale. Tanta forma, poca materia. Correndo in ogni caso il rischio di aver completamente sbagliato interpretazione: basti pensare al fatto che la traduzione del titolo, dal russo all'italiano, suona come "Nuovo Mondo". Qualcosa che, a giudicare dall'interpretazione di ciascuno, può c'entrare tutto o niente con il "mondo" di cui si parlava sopra.
Mi assumo dunque la responsabilità di aver scritto una recensione inutile ed intrisa di scivoloni ed incongruenze, ben poco indicativa riguardo l'album e ricca piuttosto di passaggi che possono risultare insani e privi di senso. Ma, se tanto mi da tanto, chiunque possa - anche a ragion veduta - considerarla tale, probabilmente (se non sicuramente) avrà la stessa considerazione - perché no, altrettanto a ragion veduta - del disco in questione.
13/06/2012