Quando il leader di una band importante realizza uno o più dischi solisti, possono verificarsi due cose: o i suddetti lavori sono caratterizzati da uno stile per nulla o quasi differente da quello della band, oppure si rivelano come una via per l’artista di provare nuove soluzioni rispetto a quelle presenti nel repertorio del proprio progetto principale. Tim Burgess ci aveva già mostrato nove anni fa, con il proprio debutto da solista “I Believe”, che il suo era il secondo dei due casi sopra esposti ed era quindi lecito attendersi qualcosa di diverso rispetto a quanto proposto con i
Charlatans anche per questa seconda prova, scritta in collaborazione nientemeno che con
Kurt Wagner.
Non che la band di Manchester si sia mai attestata sulle stesse coordinate stilistiche nel corso della propria carriera, soprattutto a partire da “Us And Us Only”, ma il Burgess solista dà ancora una
volta l’impressione che quasi nessuna delle sue canzoni sarebbe buona anche per il repertorio della band. Sono, infatti, almeno tre le caratteristiche di base che distinguono il suo lavoro da quello con i Charlatans: melodie più aperte e pronunciate, una maggior leggerezza del suono e del cantato, una varietà nel ventaglio degli arrangiamenti che portano l’autore a esplorare più approfonditamente certi canoni stilistici che con la band vengono lasciati da parte o approcciati timidamente.
Se sui primi due aspetti c’è poco da specificare oltre a quanto scritto, sul terzo è quantomeno il caso di dettagliare. Burgess fa convivere gomito a gomito contaminazioni soul (“White”, “The Great Outdoor, Bitches”), accenni di Americana (“The Doors Of Them”, “The Gaduate”), un misto tra queste due cose (“The Economy”), un retrogusto slowcore (“A Case For Vynil”, “Tobacco Fields”, “A Gain”), atmosfere da West Side Story (“Hours”), tutto con una componente pop che cerca di fare da collante. Certo, alcuni di questi territori sono già stati esplorati da Burgess con i Charlatans (soprattuto il soul in “Wonderland” e i momenti più acustici, parte importante del trittico di album che parte dall’omonimo, continua con “Tellin’ Stories” e si conclude con il citato “Us And Us Only”) e per altri ci si poteva avvalere dell’esperienza di Wagner, ma è indubbio che tutti gli elementi citati abbiano qui un ruolo molto più rilevante all’interno dei singoli brani rispetto a quando essi erano stati utilizzati in passato.
Venendo al giudizio di merito, ci sono aspetti positivi e negativi. I primi stanno in una qualità media dei brani più che soddisfacente, con un artista che mostra di non aver ancora esaurito la vena compositiva dopo tanti anni di attività e di essere in grado di trovare sempre la chiave giusta per interagire con attitudini stilistiche diverse in modo credibile ed efficace. I secondi stanno in uno sviluppo eccessivamente slegato del disco nel suo complesso: soprattutto le tre lunghe tirate dall’impronta slowcore risultano troppo poco accostabili agli altri brani e la loro presenza è la causa principale della mancanza di quel contesto globale necessario affinché un album non sia solo una raccolta di canzoni messe insieme senza una logica. È vero che c’è una tendenza di tutti i brani a flirtare con il pop e che questa caratteristica dovrebbe rappresentare il filo conduttore del disco, ma non sempre, nella realtà dei fatti, si coglie un’unitarietà.
L’ascolto è comunque consigliato, perché una buona canzone è sempre una buona canzone e queste lo sono tutte, peccato che in questo caso il loro insieme non crei valore aggiunto rispetto alla loro somma. Lo promuoviamo, comunque, Burgess: avercene di artisti che, dopo un ventennio di attività, hanno ancora la sua prolificità, la sua freschezza di idee e la sua voglia di non fermarsi alle certezze acquisite.
Interessante anche l'edizione con il cd aggiuntivo contenente sei remix, tutti ben congegnati.
12/11/2012