Il trio di Chicago prosegue, senza novità di rilievo, nella declinazione di uno slow-core dalle tinte psichedeliche e post-, profondamente malinconico e non lontano, come confermavano già le precedenti prove, da certi affreschi Talk Talk (quelli della seconda fase, ovviamente).
Con una voce che riecheggia lontana, avvolta da foschie magnetiche e attraversata dai suoi stessi riverberi, Christensen spinge queste pièce sfuggenti verso dimensioni sempre più diafane, la cui consistenza obliqua è amplificata da un basso che pulsa discreto nelle retrovie ("The Real Devil") o da qualche rintocco sparso dentro landscape sterminati, in cui ogni singolo suono sembra una scintilla di ghiaccio infuocato ("Chemist").
Intrigante è l'uso delle percussioni in "Island Machine" (in cui alle figure minimaliste delle stesse corrisponde una maggiore consistenza in fase di definizione melodica dello sfondo) e in "Colored" - un brano, quest'ultimo, che passa da momenti assolutamente incantevoli ad altri in cui l'inquietudine è mediata dalla coincidenza di sorgenti più o meno caotiche.
Purtroppo il disco perde decisamente consistenza negli ultimi due brani, assestandosi su posizioni fin troppo interlocutorie.
(05/07/2012)