Non è la prima volta che i Goldfrapp cercano di tornare al linguaggio più intimista e onirico degli esordi. Anche stavolta sembrano voler dimostrare al loro pubblico - quello che si era innamorato dell’algida perfezione di “Felt Mountain” e che, messo a dura prova, aveva continuato a seguirli nonostante gli sbalzi d’umore di Alison e la sua insaziabile fame di diventare una glamorous diva del pop (mai del tutto appagata) - che sotto i lustrini e le mire da classifica loro sono rimasti gli stessi, pronti a riportarlo in un’area di maggiore comfort e ad accantonare al momento giusto le produzioni più modaiole.
Si potrebbe maliziosamente pensare che questo momento giusto arrivi ogniqualvolta le quotazioni dei due sembrino vacillare, come quando, cinque anni fa, “Seventh Tree” fu accolto con un grosso sospiro di sollievo dai fan della prima ora e da buone recensioni. In molti pensavano, e speravano, che i due avessero imparato la lezione e capito di dover lasciarsi alle spalle mirrorball e completini sexy, per poi venir successivamente smentiti, e delusi, da quella sbornia anni 80 che fu il non del tutto riuscito “Head First”.
Eppure, a ben sentire, anche “Seventh Tree” era tutt’altro che perfetto, sotto il vestito acustico mostrava spesso un songwriting tanto frivolo quanto quello di “Supernature”. Insomma, il loro non è mai stato solo un problema di genere scelto (Will Gregory è in fin dei conti un ottimo mestierante) ma di come questo veniva affrontato, dell’ispirazione che lo sorreggeva.
E’ vero che il loro background barocco ha spesso reso troppo leziose le loro escursioni più ritmate e radiofoniche, ma potrebbe essere solo un caso che sinora, almeno sulla lunga durata dell’album, i due siano riusciti a dare il meglio indossando i panni di eredi dream-pop che non quelli di Olivia Newton-John.
Forse non si scoprirà mai cosa si celi dietro il loro dualismo stilistico, se vi sia mero calcolo o imprevedibile istinto, ma questa volta i dubbi possono essere rimandati perché finalmente appagati da un album del tutto riuscito. Le storie qui raccontate mostrano tutte la consapevolezza di essere quanto di meglio Will Gregory e Alison Goldfrapp potevano offrire a questo punto della loro carriera, infischiandosene dei riscontri commerciali e di suonare à-la page, e meritano davvero il plauso che sicuramente i loro primi sostenitori gli tributeranno.
Agli appassionati del genere non sfuggirà poi il vezzo di aver intitolato con nomi propri i pezzi del disco, proprio come quel caposaldo dream-pop che è “Treasure” dei Cocteau Twins. Le similitudini col capolavoro degli scozzesi si fermano però qui, le atmosfere di “Tales Of Us” potrebbero in effetti ricordare più quelle di “Victorialand”, seppur meno iridescenti e in veste notturna. E’ un lavoro pacato, riflessivo, in cui viene quasi del tutto accantonata ogni velleità electro-dance a favore di un folk-pop vintage e rigoroso, e di un'elettronica così minimale da risultare quasi impercettibile. E se il risultato finale è addirittura austero, i delicati ricami acustici dell’ammaliante singolo “Drew” o di brani come “Simone” meglio non potrebbero avvolgere l’interpretazione morbida e sussurrata della Goldfrapp, stavolta più contenuta anche vocalmente.
Eccezion fatta per la clamorosa “Thea”, che spezza letteralmente e inaspettatamente l’album, e in cui l’ugola celestiale di Alison viene sopraffatta da oscuri gorghi elettronici proprio come ai tempi di “Black Cherry” (ma senza perdere la delicatezza d’intenti), “Tales Of Us” suona compatto, come un lento continuum che richiede ascolti e dedizione per poter cogliere le comunque sostanziali sfumature tra i vari pezzi.
Solo così si rimarrà conquistati dalla nenia al retrogusto orientale di “Jo”, dalle melodie dreamy più malinconiche di “Annabel” e “Ulla” o dalla circolare cupezza dark-wave di “Alvar”.
Unico raggio di (fioca) luce che il duo di Bristol regalerà all’ascoltatore sarà evocato dalla conclusiva e placida “Clay”, non prima però di averci riportato alla mente quell’irripetibile alchimia del loro esordio con l’apertura per archi (da brividi) di “Stranger” e col tetro cabaret di “Laurel”.
Cosa ci attenderà al termine di questa carezzevole nottata? Saranno in tanti ad augurarsi che non termini mai, c’è da scommetterci, ma è probabile che al prossimo giro Goldfrapp e Gregory riallaccino le loro scarpette da ballo e tornino all’assalto di radio, spot pubblicitari e passerelle. Qualunque cosa decidano di fare, la speranza è che, da questo momento in poi, la loro ispirazione mantenga questo tanto agognato stato di grazia raggiunto.
01/09/2013