Parlare del pesarese Paul Chain (al secolo, Paolo Catena) è come rispolverare dal baule in soffitta un vecchio scrigno dove sapevamo che era stato riposto qualcosa di prezioso anni prima. Chi ha vissuto gli anni Ottanta e li ha vissuti negli ambienti musicali alternativi e antagonisti, oltre ad aver conosciuto la maggior parte dei gruppi punk-hardcore del Belpaese e non (dai Minor Threat ai Black Flag e dagli Husker Du ai Raw Power e Negazione, passando per i Cccp), si sarà sicuramente imbattuto in un gruppo metal assai scenografico e “grand guignol”, nato a Pesaro ma di stanza a Firenze, tali Death SS, formati principalmente dal frontman Steve Sylvester (c’è chi sostiene che Marilyn Manson abbia preso spunto dal suo modo di stare in scena e di truccarsi, anche se gira la storiella per cui sia stato Richard Benson il “vate” scenografico per il giovanissimo Manson) e dal chitarrista Paul Chain.
I Death SS ebbero la sfortuna di essere da subito scambiati per nazisti, quando le SS che troneggiavano dopo il loro nome altro non erano che le iniziali del cantante Sylvester. Ebbero poi anche nomea (una pessima maldicenza) di portare una sfortuna nera a chi li incontrava o anche solo ascoltasse i loro dischi (!). Fatto sta che, dal 1977, i Death SS gettarono le basi per un moderno doom-metal che prendeva sì spunto dalle cupi riff dei Black Sabbath, ma che li rivedeva, almeno agli inizi, in una chiave prettamente dilettantesca ma assai fascinosa e dalle tematiche horror.
Paul Chain, che di quel gruppo era la vera anima musicale, se ne distaccò nel 1984 e intraprese subito una sua prolifica attività solista, avendo sempre molto a cuore le tematiche dell’occulto, della magia nera, di scenari dell’orrore, ma anche una profonda sensibilità del mistico, a livelli quasi metafisici e ultraterreni. In un certo senso, si potrebbe trovare in lui un prosieguo artistico intrapreso nel decennio precedente dalla setta fondata da Antonio Bartoccetti (tra l’altro, marchigiano anche lui), Jacula prima e Antonius Rex dopo.
Ma si potrebbe pure trovare una qualche similitudine (solo come attitudine, non per la musica) con David Tibet e la sua creatura Current 93. I dischi maggiori di Paul Chain furono stampati dalla Minotauro. Ora Marco Melzi, il proprietario di quella coraggiosa label lombarda, ha pensato bene di rieditare in lussuosi formati cartonati “vinyl replica”, corredati di ogni inserto e persino adesivi che erano inclusi nelle stampe originali in vinile, per la sua nuova distro Markuee, che intelligentemente, non vende solo metal e affini.
Dal mucchio di queste belle ristampe, abbiamo scelto quello che, a nostro avviso, riteniamo essere il disco più importante di Paul Chain, sicuramente quello che più si discosta degli stereotipi doom e che risulta maggiormente avanzato e sperimentale. Si tratta di “Whited Sepulchres”, uscito in vinile bianco per la Minotauro nel 1991 e con una veste grafica a mo’ di biglietto per le condoglianze, un disco che spiazzò più di un fan, che si aspettava qualcosa di più simile ai Saint Vitus, Trouble o “Master Of Reality” dei Black Sabbath.
Va detto che Chain ha sempre realizzato dischi in cui convivono cose decisamente buone insieme ad altre più discutibili o banali. “Whited Sepulchres” rappresenta quindi una summa delle sue tante sfaccettature come artista, dalla manipolazione di una litania religiosa (un prete che intona un rosario con dei fedeli) su rumori d’ambiente e concreti, che si odono all’inizio di “Are You Ready?” prima di sprofondare nelle più cupe e angosciose sonorità infernali alla fine dello stesso brano. Questo stesso trucco Chain lo utilizzò nel suo primo Ep, ancora piuttosto farraginoso, ma assai affascinante, accreditato ai Violet Theatre, “Detaching From Satan” (Minotauro 1984).
La lunga scorribanda elettrica della title track, in origine posta sul primo lato, è ciò che oggi potremmo definire “stoner”. L’effetto è un po’ come se i Subarachnoid Space si fossero dati all’hard-rock, oltre alla psichedelia liquida. Idem, ma con meno enfasi, per quanto riguarda “The Fox In The Park”. “Traffic” è quanto di più distante Paul Chain avesse inciso fino ad allora: uno space-rock di marca “kraut” su base sempre elettrica (ricordate i fiorentini Sensation’s Fix?) ma con dei suoni concreti sparsi nella parte finale. “Two Minutes” altro non è che un evocativo arpeggio di chitarra su base ambient e dalla durata di appunto due minuti.
“Whited Sepulchres”, che all’interno riporta un inserto con una poesia di Prevert, è anche il suo disco con meno cantanto in assoluto, essendo prevalentemente strumentale. In un certo senso, è il suo “The Process Of Weeding Out”, il capolavoro strumentale dei Black Flag. Chain ebbe una grossa soddisfazione nel 1995, quando vide concretizzarsi il suo sogno di poter incidere un disco in collaborazione con Lee Dorrian, il doppio “Alkahest”, che però nulla aggiunge a quanto Chain avesse già sperimentato in passato, ma che risulta essere ben superiore alle ultime e mediocri uscite dei Cathedral.
Questo è anche il suo disco meglio prodotto in assoluto. I fan del doom più canonico forse preferiranno l’altro suo “cult album”, “In The Darkness” (Minotauro 1986), anch’esso da poco ristampato dalla Markuee e dove c’è uno dei gioielli di Chain, l’atmosferica e arcana “War”. Il massimo capolavoro del chitarrista di Pesaro però troneggia sul primo lato del concept “Opera 4th” (Minotauro 1987, ristampato dalla Markuee nel 2010), “Our Solitude”, una sinfonia elettronica dalla durata di mezz'ora (Chain suona tutti i synth e l’organo) dove lo spiritualismo di Constance Demby incontra l’arcano ultraterreno. Paul Chain rimane ancora oggi una figura mitica per gente come Electric Wizard, Cathedral e tutto la scena metal che fa capo a loro.
05/06/2013