Se, a volte, vi guardate dentro e vedete colossi industriali ridotti a scheletri arrugginiti, fuori posto in mezzo alla natura di nuovo florida e arrembante, allora questo disco suonerà perfetto. In effetti, suona davvero perfetto. Il modo in cui le chitarre risuonano, corpose ed essenziali insieme, nello spazio lasciato dai pattern elementari della batteria, mentre Matt Randall sussurra con innata malinconia e infantile stupore la sua musica sublime e perdente, dice tutto – è un dialogo che inizia dalle prime note di “Whispering Trees”, con la dolcezza stralunata e solitaria di un East River Pipe (“Away With The Sun”, “Spirit Or Spell”).
I Plantman, duo finora di piccolo cabotaggio il cui esordio aveva avuto la relativa sfortuna di venire distribuito in sole trentacinque copie, unica uscita con presenza di voce (e probabilmente di canzoni propriamente dette) della Cathedral Transmissions, sono riusciti invece a pubblicare questo secondo in maniera più capillare.
“Whispering Trees” presenta, con la veste dell’indie-pop più placido e sornione (escluso l’incedere deciso e sferragliante da Flying Nun di “May (Safe Hearts)” e il glockenspiel giocoso di “The Bitter Song”, pezzo alla Seabear), ma al tempo stesso intenso nella sua essenzialità, quindici canzoni di altissima ispirazione compositiva e di riuscita sonora impeccabile (straordinaria la compattezza e il tiro della title track).
Per quanto più definito del precedente e uggioso “Closer To The Snow”, il sound della band e le soluzioni di arrangiamento non trascurano di evocare la potenza anche monodimensionale, scarna di un’emozione, con una delicatezza unica, alla quale possono dirsi di essersi avvicinati solo nomi come i Go-Betweens (McLennan pare fare da padrino all’ingenua saggezza del disco, si veda lo psych-folk nudo e amorevole della conclusiva “Melodica Forest”) e gli Innocence Mission di “Glow”.
C’è tanto a cui attingere anche per chi ama la trasognata contemplazione dei Galaxie 500, in “Whispering Trees”. Come in “On Fire”, gli accordi di “Crackles” hanno un che di epifanico, di rivelatore, mentre in “Old Ghosts” disegnano una liturgia accompagnata da ectoplasmi. La filastrocca Velvet-iana di “Vini” (il Reilly dei Durutti Column?) non è da meno nell’esprimere una dolce protensione dell’animo, un’immersione catartica nel ricordo e nel futuro.
Insomma, non è facile descrivere un album perfetto. Tanto curato quanto modesto, “Whispering Trees” suona come un disco indipendente, quando indipendente significava ancora poter esprimersi secondo le proprie regole e modalità.
Non perdete un attimo: i riverberi della trionfante marcia interiore di “Lunaria” potrebbero evitare una dichiarazione di guerra, figuriamoci un attacco di depressione...
05/03/2013