Dopo ogni tempesta torna la quiete? Si era rimasti all’ultimo, disastroso “Dedicated to Chaos”: un inconcludente e confuso polpettone presto annoverato come il punto più basso toccato dai Queensrÿche dai tempi remoti dello sciagurato “Hear In the Now Frontier”. Come fu per il pasticciato e tardivo esperimento grunge - datato 1998 - anche stavolta lo shock è stato talmente destabilizzante da portare a sconvolgimenti nella band: dissidi interni, siluramento di alcuni membri del management, strettamente legati al frontman Tate, regolamenti di conti e risse sfiorate nel backstage di uno show a San Paolo nel 2012, fino all’inevitabile scisma: “I Queensrÿche hanno deciso di proseguire senza il loro storico cantante Geoff Tate”, tuonò un comunicato della band.
I mesi che seguiranno vedranno l’esibizione di un patetico teatrino fatto di battaglie legali per l’uso del nome della band. Così, mentre il gruppo annuncia l’ingresso di Todd La Torre (voce dei Crimson Glory) come sostituto di Tate, quest’ultimo forma una nuova band insieme al suo amico Kelly Gray. Il risultato è una grottesca situazione di stallo in cui due formazioni sono in circolazione con lo stesso nome, in attesa di capire a chi spetterà il diritto di manterlo.
Gli avvenimenti di cui sopra non potevano che introdurre quindi scetticismo riguardo la creatura di esordio della nuova band di Tate; le sole sei settimane necessarie al concepimento della stessa, unite al ricordo del malriuscito esperimento solista del frontman datato 2003, hanno fatto il resto per evocare il fantasma di un frettoloso pastrocchio realizzato al solo scopo di ripicca verso i vecchi compagni. Forse per questo le iniziali impresse sulla rozza copertina - due lettere “F” e “U” - sembrano voler evocare un popolare insulto anglofono piuttosto che le iniziali di “Frequency Unknown”. Eppure, se si riesce a mettere da parte per lo stretto necessario l’inevitabile antipatia per un personaggio ormai tanto controverso, protagonista di grottesche vicende di gossip di serie B, ci si accorge che l’album proposto ha un suo perché, sebbene vada ricacciata ogni presunta velleità nei confronti dei remoti antichi fasti.
E’ così quindi che “Cold”, il singolo diffuso già da qualche tempo, conferma di essere un buon brano orecchiabile, mentre “Dare” presenta subito un acuto inaspettato: suono pieno e di impatto, progressioni interessanti e l’impressione di una traccia che scorre e funziona. L’approccio è in linea con gli ultimi lavori dei "Ryche", che piacciano o meno, ma con maggior coesione. Capita quindi che “Give It To You” riesca in ciò che “Dedicated To Chaos” ha maldestramente fallito, evocando una melodia catchy pur schivando il piattume inconcludente del predecessore.
Non mancano chiaramente alcuni tonfi, anche pesanti: “Life Without You” prova a decollare, ma alla fine risulta ruffiana e a tratti addirittura sguaiata, mentre i tentativi di “Everything” di ammiccare verso l’ascoltatore maggiormente propenso all’easy listening si infrangono su un ritornello pacchiano e stucchevole. Ne risulta una doppietta che ricorda i peggiori momenti della band, che tanti fan hanno fatto fuggire nell’ultima decade.
Fortunatamente “Fallen”, richiamando alcune sonorità etnicheggianti di “Tribe”, ritorna su livelli apprezzabili, con linee vocali sorprendentemente ariose ed efficaci da parte di Tate (forse il suo miglior momento nel disco), raggiungendo l’apice dell’intensità nel brano più ambizioso del lotto, posto a suggello dell’opera come sovente fatto in passato con la sua vecchia formazione: “The Weight Of The World” avanza maestosa ed epica, concludendo un “Frequency Unknown” nel suo complesso apprezzabile, seppur senza momenti che resteranno nella storia di un nome che ancora non si sa bene a chi verrà affidato.
In realtà, non sarebbe finita qui. Per motivi che sicuramente fanno parte della vergognosa diatriba legale in corso, le ultime tracce del disco contengono quattro gloriosi brani della band riarrangiati con la nuova formazione: “I Don’t Believe in Love”, “Empire”, “Jet City Woman” e “Silent Lucidity”, presi dai meravigliosi lavori “Operation: Mindcrime” ed “Empire”. La performance è di assoluto imbarazzo per la reputazione del cantante, sia per la prestazione vocale che per le scelte in fase di missaggio e utilizzo dei suoni: un risultato blando, dilettantesco e ben oltre il limite del grottesco.
Visto il buono che si intravede in “Frequency Unknown”, meglio ignorare tale presunto esperimento riponendo la speranza nella voglia di Geoff Tate di rimettersi in gioco e riaccendere completamente il suo indiscutibile talento, prescindendo dalle guerre di orgoglio. In fondo, la speranza è l’ultima a morire.
31/08/2013