Ripercorrere seguendo una linea temporale l'esondazione del filone cosiddetto modern classical sarebbe impresa possibile quanto dispendiosa e complessa da realizzare nel contesto di una singola recensione. Il fenomeno, che dalla metà del decennio Zero in poi ha raggiunto una capillarità incredibile, si sta ampliando di anno in anno contando sempre più sfaccettature sia stilistiche che atmosferiche. Volendo abbozzare una localizzazione geografica, l'Italia potrebbe dirsi fra i regni incontrastati del pianoforte, vista l'incredibile proliferazione di talenti che, da Ludovico Einaudi in poi, hanno invaso la scena negli ultimi anni. Non molto tempo fa, in sede di qualche recensione, si riportava di questi ultimi un breve elenco: a questo, in cui spiccavano nomi come Francesco Trento, Bruno Bavota e Fabrizio Paterlini, ne va ora aggiunto uno nuovo, che poi tanto nuovo non è.
Pochi probabilmente sanno infatti che Federico Albanese, milanese di nascita ma berlinese d'adozione artistica, altri non è se non uno dei tanti collaboratori che è passato di sfuggita proprio nel cast, in continuo rinnovamento, che accompagnava Einaudi su disco. Una parentesi durata il tempo di un brano, “The Planets”, probabilmente il più bello di un disco imperfetto e ambizioso come “Nightbook”, dove il musicista si era occupato di generare e conciliare al laptop una pseudo-orchestrina di archi sintetici. Un ruolo di secondo piano, insomma, che gli ha permesso di presentarsi oggi con questo “The Houseboat And The Moon” dinnanzi a un mondo a cui il suo nome diceva ben poco, ma con la garanzia di quella Denovali la cui lungimiranza e il cui tempismo nell'accaparrarsi il meglio in circolazione meriterebbero un articolo a parte di sole lodi.
“The Houseboat And The Moon” è senza mezzi termini uno dei più bei dischi di strumentale contemporanea issanti bandiera italiana che siano mai stati dati alle stampe, sito com'è al centro perfetto tra il polo “sentimentale” e quello accademico del filone cosiddetto modern classical. Come se il compromesso da tanti cercato fra Ólafur Arnalds e Nils Frahm fosse stato finalmente raggiunto. Ma c'è anche qualcosa in più: l'incredibile capacità di trasformare la classe in sentimento (l'alba malinconica di “Carousel #1”, il maestoso adagio di “Lichtung”) e la sobrietà in dolcezza (la sonata dimessa di “Carousel #3”, il notturno vellutato di “Kato”, il tenero sussurro, controcantato dal violoncello, di “Secret Room”). In tredici brani Albanese manda una dimostrazione di maestria pure alla gran parte di quei progetti che hanno tentato di allacciare quest'universo sonoro con il linguaggio della tecnologia (non ultimo Piano Interrupted, patrocinato proprio da Denovali).
È il caso della delicatissima pioggerella che circonda lo spettacolare sboccio di “Disclosed”, dei bagliori intermittenti fra le nuvole di “Double Vision”, dei sussurri controvento nel balletto di “Spheres” e soprattutto della palpitazione vitale che spinge ad aprirsi l'introversa “Queen And Wonder”. L'iniziale “Beyond The Milk Wood” sfoggia un minimalismo strappalacrime, unico collegamento con la tradizione autenticamente classica assieme all'amore per Satie, omaggiato senza nascondersi in “The Sudden Sympathy”.
La chiusura di “Space In Between” torna a cullare con una sensibilità che pochi prima erano stati in grado di offrire in maniera tanto spontanea, suggellando uno di quei lavori in cui l'emozione sconfigge in una sfida senza storia l'abusato argomento del “nulla di nuovo sotto il sole”.
09/04/2014