Personaggio schivo e solitario, l’inglese Bill Pritchard dopo un lungo peregrinare si è stabilito in Francia, senza mai perdere il suo eterno status di artista di culto. Il suo è un jangle-pop leggermente intriso di psichedelia che evoca Robyn Hitchcock e Morrissey, la sua voce leggermente indolente ha il fascino di Lloyd Cole e Momus, e la sua scrittura si muove agilmente tra pop e songwriting.
Mai epocale o memorabile la musica dell'autore è sempre intelligente e raffinata, e abbandonata la sbornia elettronica del suo unico album del secondo millennio (il poco convincente “By Paris, By Taxi, By Accident”) il musicista con “A Trip To Coast” ritorna a quel pop agrodolce che convinse Etienne Daho a produrre “Three Months, Three Weeks & Two Days” e coinvolse il genio di Ian Broudie nel successivo “Jolie”.
Le dieci nuove canzoni stimolano molto la nostalgia dei fan del musicista grazie a un gradevole mix di ballad elettroacustiche coinvolgenti e leggermente insolenti (“Yeah Yeah Girl” e “Tout Seul”) e a un suono costantemente cristallino e sognante.
Folk, rock e pop restano sempre gli elementi base della sua musica con echi beat o Paisley Underground (“Trentham”), non mancano acceni di blues e jazz da crooner nella languida “Posters” o di romanticismo quasi pastorale nella piano-ballad “Truly Blue”.
Nonostante l’album sia ricco di passione e puro divertimento per i musicisti coinvolti, non ci sono sufficienti elementi per andare oltre un piacevole deja-vu, e pur se privo di momenti deboli “A Trip To Coast” non riesce a mettere insieme tutte le credenziali che hanno reso Bill Pritchard un musicista amato e riverito da molti fan (tra i quali non nego di esserci).
L'oscura bellezza di “Half A Million” e l’equilibrio pop di “Three Months, Three Weeks & Two Days” sono lontani, e quando la melodia sibillina di “Polly” sembra riagguantare la vecchia magia, è troppo tardi per non equiparare l’ascolto del nuovo Bill Pritchard a una semplice e piacevole rimpatriata con un caro vecchio amico.
29/03/2014