Basta dare un'occhiata al nome della sua etichetta per comprendere l'approccio di Fabio Perletta alla sound art. Uno scienziato del suono in senso stretto, visionario nell'utilizzarlo come strumento d'indagine concettuale e stimolazione percettiva piuttosto che come mezzo di evocazione o di illustrazione, nel solco della tradizione inaugurata dal primissimo Ryoji Ikeda. A dire il vero, in alcuni lavori l'idea di evocare scenari può essere ritrovata persino nelle geometrie metafisiche divenute negli anni trademark dell'artista abruzzese: luoghi però del tutto inusuali e quasi sempre appartenenti a un “mondo parallelo”, sconosciuto alla percezione razionale e cosciente.
In questa casistica rientra anche “Interstitial Spaces”, il cui titolo è già sufficiente a suggerire quale sia l'ambiente descritto e affrontato da Perletta attraverso il suono. Gli spazi interstiziali, ovvero le distanze di circa un quadrilionesimo di metro che separano una cellula di un tessuto umano da un'altra, sono i luoghi in cui il disco si propone di addentrarsi attraverso due lunghe digressioni costituite, come naturale, da suoni che talvolta faticano a raggiungere l'udito. Frequenze ridotte ai minimi termini, particelle elettroniche in viaggio autonomo, cellule di suono che si agglomerano progressivamente dando vita a impercettibili interazioni.
La prima delle due suite senza titolo che compongono la tracklist vaga per dieci minuti in un sostanziale vuoto perpetuo: il silenzio è rotto solo da intangibili variazioni dello spazio circostante, difficilmente ascrivibili anche solo all'idea di suono. Verso i dieci minuti una frequenza più stabile si insedia evolvendosi progressivamente in forma di un drone, la cui natura rimane amorfa. La prima cellula si dissolve lasciando spazio a una nuova parentesi di infinitesimi di suono prima e alla comparsa di un secondo drone: solo nei dieci minuti finali i due flussi iniziano a intrecciarsi e scambiarsi elementi, conferendo un abbozzo di forma all'intera composizione.
Leggermente più breve, la seconda suite ripropone una struttura simile: stavolta, però, la formazione di un unico flusso è anticipata al decimo minuto e la sua evoluzione in un tempo dilatato nell'infinitesimo interstiziale è seguita per tutto il resto del pezzo, da prospettive e angolazioni sempre diverse. Esattamente come il successivo “Mirror Neurons” di quest'anno, elaborato assieme a un'altra esponente in musica del minimalismo estremo come France Jobin, “Interstitial Spaces” è un gioiello che dimostra una volta di più l'abilità di Perletta a trasformare il suono in materia d'indagine, per sé stesso e per quei luoghi che la percezione cosciente non è in grado di raggiungere.
Magistrale.
07/06/2015