Il nome della Gerrard suscita negli amanti della musica vocale sempre un fremito irrefrenabile, grazie alla fama conquistata prima come metà degli straordinari Dead Can Dance, poi attraverso una felice carriera solista, in cui spiccano le collaborazioni con Hans Zimmer per colonne sonore (quella de “Il Gladiatore” ottenne un grande successo di critica e vinse il Golden Globe) e con Klaus Schulze.
Questo lavoro, invece, vede l'artista australiana come protagonista, anche se si riconoscono voci differenti nei pezzi cantati in maniera più lineare, ossia “Estelita”, uno tra i più riusciti, “Too Far Gone” e forse anche “Seven Seas”: contributi decisamente azzeccati, che hanno un tocco lieve, dolce e leggermente malinconico, a tratti ricordano l’impostazione di Antony. Merito degli altri collaboratori citati nel disco, ovvero Daniel Johns, Patrick Cassidy e Astrid Williamson, mentre i credits citano anche l’apporto del fidato italo-argentino Marcello De Francisci (già al lavoro con lei in precedenza per la colonna di “Samsara” così come nell’album “Departum”), probabilmente per le parti musicali.
I fan di vecchia data si rallegreranno del fatto che la Gerrard si rifaccia esplicitamente alle atmosfere del periodo Dead Can Dance, in particolare a lavori come “Serpent’s Egg” o “Into The Labyrinth” (a partire dalla copertina, particolarmente adatta ed evocativa), anche se manca la ricca varietà di suoni alla quale il duo ci aveva abituati e prevale la concentrazione su territori meno etnici e più eterei. La voce della cantante torna infatti ai vocalizzi senza parole, o meglio in lingua personale e trascendente, una glossolalia fuori dalla comprensione, se non quella dettata dall’istinto, che sembra guidarci lungo il percorso di questo regno del crepuscolo. Regno creato passo dopo passo, grazie alla voce che riecheggia da vastità informi, talvolta buie, come onde creatrici, passando da un contralto profondo e misterioso a un timbro liturgico da sacerdotessa non meno lirico. La voce della Gerrard brilla e delinea i paesaggi abbozzati dal sottofondo musicale, ove l’unico ritmo compare solo a tratti, scandito da lontani e profondi timpani.
Vengono dunque evitate le strutture più complesse, e si lascia solo a due episodi, “Adrift” e “Neptune”, l’eredità della composizione orchestrale, con i suoi crescendo: nel primo, con una impronta più filmica e nel secondo con una lenta trasformazione, che comunque non deborda dalla raffinata semplicità che caratterizza l’album dal primo all’ultimo pezzo, in un percorso di ombrosa circolarità.
Probabilmente il contributo di Brendan Perry, tornando al confronto con l’era-Dead Can Dance, sapeva imbastire maggior complessità e varietà nei brani, ma qui scarno non è sinonimo di scarso, e l’effetto complessivo che lo strumento principale produce – ossia la voce - è all’altezza della fama della Nostra, capace di tessere una ragnatela di sentimenti sfumati e fragili che arricchiscono l’ascoltatore, a patto che si lasci trascinare via sulle ali della suggestione, senza avere fretta.
23/11/2014