C'è chi da questa dinamica è riuscito a ricostruire daccapo una carriera in precedenza vissuta sperimentando all'oscuro dei più (Roberto Cacciapaglia), chi la svolta l'ha vissuta in maniera meno epocale potendo vantare già una certa notorietà (Ludovico Einaudi) e chi ancora attraverso di essa si è costruito un personaggio di pura recita nonostante un valore artistico radente lo zero.
Fatto sta che nel giro di due anni la generazione dei pianisti ha vissuto una proliferazione che nemmeno ai tempi della new age: basti pensare che chi scrive è riuscito a trovare nel giro di due anni ben due potenziali rampanti – Francesco Trento e Bruno Bavota, quest'ultimo appena tornato con uno splendido e inatteso cambio di rotta stilistico.
Fabrizio Paterlini in realtà è tutto fuorché un esordiente: al sesto album fedelmente autoprodotto, regala una chicca che a dire il vero forse nessuno si aspettava. Cita Max Richter come suo modello primo, ma la sua musica risente almeno in parte della tradizione italiana, più semplice, spontanea e popolare: e proprio in una terra di mezzo fra quest'ultima e l'accademismo del filone modern classical recentemente divenuto tendenza vanno a collocarsi gli otto limpidissimi ritratti a pastello che compongono il disco. Il tema portante dell'intera raccolta esplora con impagabile originalità il rapporto emozionale tra malinconia e serenità, rivelando alcune fra le ambientazioni più profonde e penetranti mai partorite a riguardo.
Le luci fioche della partenza di “Somehow Familiar” disegnano soffi vitali su un paesaggio livido e dimesso, non dissimile da quello su cui “Broken” ricama con delicatezza ed eleganza un lamento soffocato. Una malinconia mai melensa avvolge il candore fioco di “Midsummer Tiny Song”, dove l'autunno si fa largo nonostante il titolo ingannevole, e trova il suo compimento massimo nelle fluenti cascate di lacrime di “If Melancholy Were Music”, rifugiandosi poi nella dimensione intimista della commossa “My Piano, The Clouds”. Proprio fra le nuvole grigie, il dialogo interiore di “Conversation With Myself” suggerisce un primo, ipotetico varco, che si fa più nitido e cosciente fra le mura di “Empty Room” per poi essere aperto dal soffio liberatorio di “Wind Song”.
Il tasso di sorpresa è notevole, l'impressione di aver ignorato per anni un potenziale egregio rappresentante del piano solo a livello internazionale, prima ancora che italiano, altrettanto. Non ci sono rivoluzioni o spunti che siano in grado di rinnovare un genere in cui anche distinguersi per capacità evocativa è diventato ormai sempre più difficile, ma una manciata di perle composte da due elementi indispensabili come cuore e passione. Che costituiscono sempre più merce assai rara e da tenersi stretta.
(19/02/2014)