La foto del retro-copertina di “If He Dies, If If If If If If” è stata scattata il 16 luglio del 2014: Ahed, Ismail, Mohammad e Zakaria Bakr stanno giocando sulla spiaggia, corrono spensierati, ignari della morte in agguato, un attacco israeliano pochi minuti dopo farà di loro le prime vittime dell’ennesima guerra assurda.
La forza dell’immagine e la sua interazione con la musica sono gli elementi primari del progetto dei Jerusalem In My Heart, nel quale il musicista libanese Radwan Ghazi Moumneh e il regista canadese Charles-Andre Coderre hanno dato genia a una fusione dei due linguaggi, in un suono che è un corpo unico, altresì malleabile e intenso al punto da reggere la fruizione disgiunta.
La collaborazione con i Suuns di pochi mesi fa aveva evidenziato una maggiore attenzione all’elettronica e di conseguenza una minore rilevanza dell’elemento visivo. Per converso il secondo capitolo per la Constellation riporta la musica tradizionale araba al centro delle manipolazioni sonore e restituisce ai filmati in 16mm di Coderre il suo ruolo sostanziale.
“If He Dies, If If If If If If” evolve i canoni dell’esordio “Mo7it Al-Mo7it”, con quella costante digressione da jam session atta a dare un senso unitario e concettuale. Radwan Ghazi Moumneh ha sempre sottolineato nelle sue interviste la volontà di preservare il valore sociale della sua musica, senza ricorrere alla forzatura dell’iconografia politica, più incline all’astrattismo e alla sublimazione spirituale. Così il progetto dei Jerusalem In My Heart si traduce in un’esaltante esperienza mistica, in cui la realtà delle immagini e l’ascesi sonora creano una sintesi inedita e ricca di sfaccettature.
Attraverso drone music dall’ampio spettro armonico, suoni di Buzuk e un canto-recitato simile a una preghiera, gli otto capitoli di “If He Dies, If If If If If If” mettono in atto una rappresentazione del dolore e della solitudine talmente potente e intensa da trascinare l’ascoltatore in una dimensione catartica, dove poter controllare le emozioni di rabbia e sconforto, e lasciar fluire la forza delle proprie idee.
La musica riflette l’anima di Moumneh e la sua consapevolezza del labile confine tra bene e male, lo stesso confine tra la musica tradizionale e l’elettronica che viene alla luce in “A Granular Buzuk”; c’è altresì la tensione di chi ha vissuto nell’ombra delle trincee dei fondamentalisti, in quel ronzio noise che strappa l’apparente tranquillità di “Qala Li Kafa Kafa Kafa Kafa Kafa Kafa” e cerca poi conforto negli arpeggi e nel suono del mare di “2asmar Sa7ar”.
La trance ipnotica di voce e suoni di “Al Affaq, Lau Mat, Lau Lau Lau Lau Lau Lau”, il languore opposto alla forza del ritmo in “7ebr El 3oyoun”, la poesia di ”Lau Ridyou Bil Hijaz” adornata di beat elettronici, e quella più asciutta e grezza di ”Ta3mani; Ta3meitu” sono parte di un enorme e immenso ossimoro sonoro, in cui la forza della rappresentazione musicale e visiva non dona risposte ma riflessioni, la vita diventa così un palcoscenico, dove l’arte aiuta la comprensione e brama la pace.
19/11/2015