Gli esordi a Montreal e i primi album
Il nuovo millennio in Canada ha spalancato le porte a due decenni di grandi band. Difficile, nello stesso arco di tempo, trovare scene in grado di tirare fuori dal cilindro un numero così ampio di progetti portatori sani di idee applicabili al rock nella sua accezione più ampia. Alle spalle degli Arcade Fire, veri e propri portabandiera della riscossa canadese, c'è una schiera di grandi gruppi dalle pretese forse meno ecumeniche, ma non per questo – anzi! - meno rilevanti: pensiamo tra gli altri al post-punk dei Viet Cong/Preoccupations, all'indie-rock deviato degli Ought, alla psichedelia rumorosa dei The Besnard Lakes, alle sperimentazioni dei Suuns. Un vero e proprio "rinascimento" grazie al quale il paese nordamericano si è imposto come uno degli epicentri mondiali del rock indipendente/alternativo.
Montreal, in particolare, assurge a capitale di questa nuova ondata canadese. La città del Quebec dà i natali ai fratelli Butler, ma anche ai musicisti che nel 2007 danno vita ai Suuns: Ben Shemie alla voce e alla chitarra, Joe Yarmush al basso e chitarra, Liam O'Neill alla batteria e Max Henry alle tastiere (in realtà nel tempo diventerà soltanto uno strumentista in studio di registrazione, con la band che andrà a ridursi a terzetto).
Già dalle primissime prove l'attenzione del quartetto si focalizza sulla creazione di un repertorio di brani propri. Prima ancora, però, la volontà dei Suuns è quella di inventarsi un'estetica il più possibile svincolata da possibili apparentamenti con altri progetti: l'originalità espressiva, nei limiti del possibile, va di pari passo con una riconoscibilità del sound che diventerà evidente man mano che usciranno i vari capitoli discografici.
In effetti, già dagli esordi i quattro possono contare sugli ingredienti giusti per fare centro. Zeroes QC esce nel 2010 quando i Suuns sono già sotto l'egida di Secretly Canadian, che a dispetto del nome non è un'etichetta canadese ma al tempo stesso è tra le più attente a captare il meglio che sta arrivando dal sottosuolo musicale. Inoltre, la produzione dell'album è affidata a Jace Lasek dei Besnard Lakes, con le registrazioni che vengono effettuate presso il suo Breakglass Studio a Montreal. Ancora prima di iniziare, insomma, i Nostri sono già ben integrati nella scena locale.
Zeroes QC è in effetti già una sorta di manifesto delle intenzioni dei Suuns, per quanto forse ancora in una forma "semplificata" (e dunque più fruibile) ma non per questo acerba, degli esiti che i canadesi andranno a sfoderare nel decennio successivo. Il suono si sviluppa già attorno all'idea di ripetizione ossessiva, una sensazione che si può ottenere intrecciando le chitarre ai sintetizzatori in spirali psichedeliche che sembrano voler riprodurre in musica la serialità del mondo contemporaneo, ma anche – sottesa – la sua frenesia, e al tempo stesso la vacuità del vivere moderno. La sua implicita imperscrutabilità. Il suono che ne esce, insieme all'uso della voce da parte di Shemie, evoca risultati che possono ricordare certe band coeve, ma nessuna così vicina, fatta eccezione – a sprazzi – per i Radiohead che dieci anni prima o giù di lì avevano scavalcato il millennio impossessandosi di nuovi immaginari.
Se già dal lavoro successivo il suono dei Suuns andrà man mano a dilatarsi o a frammentarsi in invisibili pezzi, come ad amplificare questo senso di smarrimento post-moderno, in Zeroes QC è la componente ritmica, più ossessiva e "diritta", a scagliare – spesso ma non sempre, come si vedrà - il repertorio verso territori ignoti. Emblematici in tal senso sono "Gaze" e il lungo "Sweet Nothing", due brani che guardano più a certo garage-rock contemporaneo che all'aspetto sperimentale. Non sono da meno canzoni quali "Arena", "Armed For Peace" e "PVC", testimonianze di un talento sia in fase di costruzione dei brani che di talento melodico.
In effetti dentro all'esordio dei Suuns ogni brano assomiglia agli altri, eppure ciascuno è realizzato in modo diverso, come se il disco non fosse altro che un grande esercizio di stile. Altrove, i canadesi sembrano voler gettare i semi del loro suono prossimo futuro. "Organ Blues", in ultima posizione rappresenta già un ponte con il prossimo futuro: un brano che si muove su di una sezione ritmica spezzettata, quasi al rallentatore, sulla falsariga di un organo – appunto – che tratteggia una lieve inquietudine in diversi momenti amplificata dal rumorismo chitarristico. Altrettanto "lungimirante" - o ante-litteram - è "Pie IX", nella quale si manifesta quella ripetitività meccanizzata che assurgerà a leit-motiv della produzione successiva.
Capitoli in qualche modo "alieni" e agli antipodi sono la delirante "Marauder" e la litania quasi scordata di "Fear". Due pezzi che la dicono lunga su quali siano i confini sonori dei "primi" Suuns.
I consensi ottenuti con Zeroes DC evidentemente non bastano ai Suuns, sempre più intenzionati a esplorare le possibilità del loro spettro sonoro. Così, nel 2013, l'uscita di Images Du Futur rappresenta un'evoluzione in qualche modo necessaria per i canadesi. La band scritturata con Secretly Canadian in qualche modo si reinventa in questo secondo album, proponendo al pubblico un suono molto più dilatato e in grado di varcare nuove frontiere sonore. Images Du Futur rappresenta una camminata sicura in una terra nuova: muoversi senza incertezze e con precisione negli interstizi di una sperimentazione scivolosa è impresa difficile, anche per addetti ai lavori più longevi ed esperti.
Il racconto dell'album è un climax verso la speranza di serenità. L'apertura con "Powers Of Ten" è ruvida, contratta: Ben Shemie offre lamenti vocali, frignando accompagnato dalla sua chitarra da due corde e tre accordi che, con movimenti ossessivi, permette alla batteria di Liam O'Neill di gestire il ritmo della traccia, allentando o stringendo la morsa a piacere; sul versante opposto, la chiusura con "Music Won't Save You" è emblematica: la musica non ci salverà, ma può aiutarci certamente, attraverso un lieve arpeggio di chitarra e una tastiera a forma di palla che rimbalza divertita: il suono, scandito da batteria elettronica regolare, da un rullante ghiacciato e dalla voce di Shemie che esagera nel riproporre la lezione di Yorke di "The Eraser", enuclea la visione della band, cioè la fuga dalla realtà, con udibile scherno del pubblico pagante.
All'interno del secondo romanzo canadese scopriamo pagine intrise di paranoia, atmosfere oscure, visioni celestiali: i Suuns non intendono – di nuovo - concedere il permesso di catalogarli in un genere come la neo-psichedelia o il generico alt-pop; abbiamo altro tra le mani.
Quando il nuovo classico del repertorio "2020" attacca, le pagine sono contornate delle auree chitarristiche modello XX e la voce morbida di Shemie, accompagnata dall'intera band, insegna che non è così difficile condividere la parentela artistica con i coetanei Django Django e il padre David Crosby: in "Minor Work" e "Mirror Mirror" prendono il via i capitoli psichedelici dell'opera, ipnotici nelle tastiere e nel basso, d'altro canto morbidi nelle vocalità. Intorpiditi, fluttuiamo in "Edie's Dream", introdotta da un basso gocciolante e da note liquide di chitarra. Sembra davvero di sentire i Radiohead dell'epoca "Amnesiac".
Con "Sunspot" e "Holocene City" le strade appaiono meno fosche e il loro blues, rivisitato in chiave electro-pop, permette di fantasticare liberamente con la mente, dal momento che sono le chitarre, il basso e le tastiere a gestire la guida.
"Images Du Futur", la title track, è la visione d'orizzonte a fine corsa, la difficile distinzione tra cielo e terra, in cui i tappeti di tastiera modello Eluvium confondono, permettendo però di immaginare il "Futuro".
Collaborazioni ed esplorazioni: l'età matura
Images Du Futur è la dimostrazione, in primis a se stessi, che osare si può, e forse si deve. Le timide ma già rilevanti sperimentazioni dell'esordio trovano qui uno sviluppo non ancora definitivo, ma certamente la direzione è stata tracciata, e indietro non si torna. A dimostrarlo, un paio di anni dopo, è l'estemporanea collaborazione che i canadesi imbastiscono con Jerusalem In My Heart. Più che un incontro, l’album dei Suuns con Radwan Ghazi Moumneh assomiglia a una collisione tra due mondi: un ascetico e nomade musicista d’origine libanese e un gruppo dedito alla sperimentazione tra rock ed elettronica non sembrano avere molto in comune tranne il luogo di soggiorno: il Canada, ovviamente. La psichedelia apocalittica dei Suuns applicata al rock si è evoluta senza molti intoppi. D’altro canto il produttore e musicista libanese Radwan è la persona giusta per trascinare verso la fusione multiculturale gli elementi più ricchi di atmosfera della band.
Tre anni di session e registrazioni hanno permesso ai musicisti di far maturare con calma l’insolito frutto sonoro, intitolato semplicemente Suuns & Jerusalem In My Heart, che punta verso la semplicità creativa piuttosto che verso l’ebbrezza cerebrale. Le sette tracce non profumano di etnica sposata alla musica moderna, ma assomigliano all’ultimo disperato tentativo della civiltà terrestre di entrare in contatto con un'intelligenza superiore (“2amoutu I7tirakan”). Lanciato l’SOS, Radwan e i suoi nuovi compagni di viaggio inscenano una danza dervish con un dialogo incrociato tra basso e chitarra che simula un tentativo di conciliazione tra l’Est e l’Ovest del mondo. Neanche le suggestioni più folk-world di “Seif” riescono a trovare uno spiraglio di speranza, e il tono criptico e plumbeo di “In Touch” mette fine alle illusioni e invoca con un mantra post-elettronico-futurista una nuova alleanza cosmica, che vibra su note di metronomica trance elettronica.
E’ una fuga umana e artistica, quella che accompagna l’evoluzione dell’album. Lo sbatter d’ali di “Gazelles In Flight” mette in moto la volontà dei Suuns di liberarsi dall’ossessione estetica di “Images Du Futur”, mentre Radwan si svincola dal passato, sempre più affascinato dall’elettronica, e lascia dietro di sé tutte le connotazioni nostalgiche del suo essere libanese. La consapevolezza passa attraverso il brano più romantico e delicato del repertorio, “Leyla”, una ballata appena lambita da un timido cantato che precede il furioso finale di “3attam Babey”, che citando i Godspeed You! Black Emperor spazza via la disperazione e apre le porte al viaggio cosmico di Suuns & Jerusalem In My Heart.
Certamente la collaborazione con Jerusalem In My Heart rappresenta un capitolo apocrifo e a sé stante nella carriera dei Suuns, ma al tempo stesso rivela la loro insaziabile voglia di sperimentare e trovare nuovi orizzonti sonori. L'anno successivo, nel 2016, per i canadesi non si tratta ormai più di andare a cercare qualcosa di nuovo, ma di consolidare le basi che sono state posate nel corso degli anni precedenti: il risultato prende il nome di Hold/Still.
In ottica si usa il termine rifrazione per indicare la deviazione che un'onda subisce quando, passando da un mezzo all'altro, la sua velocità di propagazione cambia. È un po' quello che accade alla formula sonora dei Suuns con "Hold/Still": l'onda (lunga) è la stessa del precedente "Images Du Futur", ma è stata immersa, anzi deviata in un luogo più profondo, dove la luce fatica a farsi largo e il battito diventa irregolare, le certezze si incrinano, la componente psichedelica assume le sembianze di un'allucinazione post-industriale.
Ritornati alla base dopo l'estemporanea collaborazione con Jerusalem In My Heart, i Suuns proseguono la personale esplorazione di una contemporaneità sintetica e ossessiva nel suo caotico e imprevedibile moto. Proseguono, appunto, ma allo stesso tempo manipolano, rivedono, riscrivono: perché sì, c'è un filo sottile ma tenace a tenere uniti l'attuale e il precedente capitolo di una discografia che inizia finalmente a prendere una fisionomia definita, ma c'è anche una altrettanto evidente necessità di discrepanza, di frattura, di auto-estraniazione insita nel codice genetico del combo di Montreal. Una necessità di frenare, direbbero loro, che non significa tuttavia rinunciare a compiere nuovi passi avanti, con tutti i rischi e le incertezze che tutto questo comporta.
Per andare avanti, a questo punto, i Suuns decidono di spezzare il cordone ombelicale che li lega alla sempre più sorprendente scena di Montreal. Niente più Jace Lasek dei Besnard Lakes in cabina di regia, al suo posto John Congleton, produttore specializzato nel far maturare definitivamente le giovani promesse della scena indie. In seconda istanza, è l'approccio stesso a cambiare: niente più rifiniture e sovraincisioni alla ricerca della perfezione, qui si cerca la scintilla che accende la magia, e per trovarla non resta che gestire il tutto in presa diretta.
Il linguaggio parlato in Hold/Still è un inedito idioma che sta tra il post-punk, l'elettronica e l'immaginario kraut: a tratti frammentato da una rigorosa punteggiatura, altrove libero di svilupparsi in modo più estroverso, senza mai però poter raggiungere un climax - come ben racconta la parabola di “UN/NO”. Si avvertono, ancora, echi dei Radiohead del terzo millennio, ma questa volta il retaggio è solo una minima per quanto significativa parte dell'insieme: i battiti pulsanti di “Mortise And Tenon”, e ancora di più “Brainwash”, che nuota nelle stesse placide acque della vecchia “Pyramid Song” prima di sbattere contro quelle bordate elettroniche che da metà brano in poi ne vanno a imbrigliare la traiettoria dentro una sorta di catena di montaggio mai così oscura e dissonante.
Anche il rumorismo di “Fall” è soggetto a pause e ripartenze, come se ci si trattenesse a un centimetro dal caos più totale. Ma a farsi largo tra le pieghe di Hold/Still è anche un approccio ieratico che trova in “Instrument” e ancora più nell'ossessiva “Resistance” (con Ben Shemie che recita come in trance “Resist!” all'infinito) le sue definitive espressioni.
Snodo centrale tra le due parti dell'opera, “Translate” decide di schiudersi a un'impronta melodica che trova linfa nel suo moto ascendente e progressivo, sospinto da propulsioni motorik e un immaginario notturno preso in prestito dai Suicide. La componente melodica tornerà in “Nobody Can Save Me No”", ma in una veste electro-acustica decisamente compassata. E che il finale di “Hold/Still” sia più propenso ad assecondare gli istinti avanguardisti del combo canadese lo si capisce appieno nella lunga (oltre 7', la più estesa dell'intero lotto) parabola di “Careful”, che fluttua sospesa tra soundscape e attutiti omaggi a James Holden, mentre la successiva "Paralyzer" assume cadenze al tempo stesso felpate e sinistre, che invitano l'ascoltatore a lasciarsi irretire nelle loro trame. I cambi di passo di “Infinity” chiudono con nuove ombre l'album più ambizioso, difficile e compiuto dei Suuns, pervaso da una luce nera che irradia senza scottare.
Trovata la quadra dal punto di vista stilistico e sonoro, le produzioni discografiche dei Suuns diventano a loro volta più fitte. Nel 2018, l'uscita di Felt sancisce la conclusione del rapporto quasi decennale con Secretly Canadian.
Va ammesso che il quarto album dei Suuns riceveva un testimone non facilissimo da portare al traguardo da Hold/Still, un lavoro nel quale la frammentazione della materia, l'ambiguità dei moti ben rappresentata dal dualismo tra la calma ovattata e le bordate elettroniche di “Brainwash”, un'anima fondamentalmente oscura e inespressa erano tutti elementi che, combinati insieme, davano vita a soluzioni strumentali e melodiche di assoluto valore. Felt riprende le stesse istanze, si muove nelle medesime torbide acque art-rock (di quello, in ultima istanza, si tratta), ma aggiungendo all'insieme una serialità meccanica e ieratica impressa dalla parte ritmica che nei precedenti dischi rimaneva perlopiù in secondo piano, a livello di episodio occasionale. La compulsiva reiterazione – che talvolta si tramuta in graduale trasformazione – del tema, sostanzialmente irrisolta, è uno dei tratti principali che ritroviamo in questi undici nuovi pezzi in cui i synth tornano a fondersi con le chitarre. Un meccanismo che trova una sorta di magico equilibrio in “Watch You, Watch Me”, un baccanale psichedelico e alieno che mette d'accordo i Kraftwerk e gli Air di “10.000 Hz Legend”.
La scelta di tornare ad affidarsi a Jace Lasek (The Besnard Lakes), con John Congleton a infiocchettare il tutto, vuole essere un segnale di continuità e al contempo di ricerca di nuove istanze sonore. Sostanzialmente nuovo è il boogie krauto di “X-ALT”, l'assolo di sax a interrompere con intenti dissonanti la sequenza di un brano che potrebbe essere stato scritto dai Cavern of Anti-Matter.
L'andatura sorniona di “Look No Further”, quasi una falsa partenza, trova più avanti pieno compimento nello psych-rock ovattato di “Make It Real”, che è anche l'approccio più propriamente melodico del mazzo - nonché quello in cui l'influenza sempiterna dei Radiohead torna a manifestarsi. L'incedere narcolettico di “After The Fall” e le blande divagazioni di “Control”, con la sezione ritmica infine rilegata a un ruolo secondario, ristabiliscono un solido ponte con le opere passate, ma è solo una breve pausa prima che la materia torni a farsi concreta fino a divenire ossessiva (“Daydream”) e infine a disperdersi in una nuvola rumorista (“Moonbeams”).
Ciò che Felt guadagna in concretezza lo perde invece in espressività, se confrontato con un Hold/Still che era e resta la pietra angolare della discografia dei Suuns. Non si tratta però di un passo indietro, al contrario: i canadesi proseguono imperterriti per la loro autarchica strada, continuando a evolversi per rimanere sostanzialmente uguali, fino alla successiva auto-metamorfosi.
Il passaggio a Joyful Noise e gli anni Venti
L'avvento del nuovo decennio porta in dote un cambio di casacca. I Suuns passano da Secretly Canadian a Joyful Noise, etichetta che da qui in avanti pubblicherà gli album insieme alla label creata dalla stessa band: Secret City. Gli anni Venti per i canadesi si aprono con un Ep denominato Fiction, pubblicato negli ultimi mesi del 2020.
Nella sua breve corsa, Fiction si lancia in una sorta di crescendo di decibel che parte dalle orazioni al contempo sacre e inquietanti di “Look”, che pian piano scompare in un placido mare rumorista, fino al caos irreparabile di “Trouble Every Day”, nel quale le parole di Frank Zappa tornano da un passato ormai lontano - eppure mai così vicino - per profetizzare il bombardamento di informazioni cui siamo sottoposti quotidianamente su un sottofondo di chitarre che alimentano la confusione.
Il contributo degli ospiti è tutt'altro che irrilevante: la presenza di Rawdan Ghazi Moumneh dei Jerusalem In My Heart – un ritorno a tutti gli effetti dopo la collaborazione di anni prima - fa di “Breathe” una sorta di cavalcata nel deserto che rievoca l'album scritto a quattro mani pochi anni prima. L'altra guest è Amber Webber dei Lightning Dust in “Death”, con la voce femminile a ricreare un altro effetto messianico ed etereo sopra a basi che inscenano una ambient distopica e postmoderna. Di fatto è il nucleo centrale del disco - formato dal dittico “Pray” e “Fiction” - a ripresentare i Suuns nella loro forma più riconoscibile, con la prima che fa sgorgare la sezione ritmica dai marosi elettronici e la seconda che torna a muoversi con l'andatura al rallentatore che è una sorta di marchio di fabbrica dei canadesi.
Se non altro, questi due brani dimostrano le grandi potenzialità dei Suuns nella versione più standard, quella che decide di accettare i canoni della forma-canzone. D'altro canto, le sperimentazioni accennate nel resto del repertorio testimoniano la capacità della band di muoversi anche nei territori dell'avanguardia. Quale delle due strade prenderà il sopravvento sull'altra?
La risposta arriva a breve giro di posta. A inizio autunno del 2021, l'uscita di The Witness in qualche modo va a ribadire e anzi a rendere ancora più evidente il percorso del gruppo canadese nella direzione di una più marcata sperimentazione. Nelle nuove tracce, talvolta lunghe nel minutaggio e dilatate nella sostanza, c'è - dietro il paravento di una apparente aridità formale - il cuore pulsante della musica dei Suuns. Che è una musica da sempre e per sua natura sperimentale, fatta di spigoli invisibili, di voci spersonalizzate, di fantasmi sintetici che si aggirano in una sorta di trance soffusa, sospesa. Quello dei canadesi è sempre stato un sound incastrato tra invisibili pareti di solitudine, e non è certo un caso che l'opera pensata e registrata durante l'epoca-Covid vada ad accentuare questa peculiarità. Del resto, se non c'è salvezza, se manca la redenzione, qua dentro non c'è nemmeno traccia di dannazione: è tutto sospeso in un limbo elettronico, un labirinto senza uscite. Una condizione nella quale, forse, un po' a tutti è capitato di trovarci nell'incertezza snervante dei lockdown.
Auto-registrate e auto-prodotte, le tracce di The Witness mancano – volutamente – degli spunti melodici dei precedenti album e, soprattutto, dei crescendo strumentali che spesso cambiavano la sorte dei brani, attestandosi eventualmente su impalcature che vanno man mano a ingrossarsi (“C-Thru”). Qui tutto è virato in tono minore, senza sussulti, e si basa più sull'incedere del beat che sulle sparute linee che vanno a colorarne gli spazi. Un beat che talvolta finisce persino col dissolversi e poi ritrovarsi, come nella sottile psichedelia di “Third Stream”.
Se “Timebender” abbozza persino una metrica funk, una componente melodica di pregevole fattura fa timidamente capolino in “Witness Protection”, forse la cosa più vicina a un singolo che si possa trovare in questa scaletta. La parabola di “The Fix” introduce un rumorismo che sa di industrial, “The Trilogy” abbozza traiettorie che potrebbero essere spaziali. Ma sono sensazioni, echi che rimbalzano come in uno spazio vuoto, senza materia e talvolta, come in questo caso, prive anche di gravità.
A poco più di un decennio di distanza dagli esordi, i Suuns sembrano più che mai protesi alla ricerca di una formula tutt'altro che accomodante, oscura e al tempo stesso luminosa, in grado di guardare al futuro senza dimenticare di parlare al presente.
Contributi di Stefano Macchi ("Images Du Futur") e Gianfranco Marmoro ("Suuns & Jerusalem In My Heart")
Zeroes QC (Secretly Canadian, 2010) | ||
Images Du Futur (Secretly Canadian, 2013) | ||
Suuns & Jerusalem In My Heart (Secretly Canadian/Secret City, 2015) | ||
Hold/Still(Secretly Canadian, 2016) | ||
Felt (Secretly Canadian, 2018) | ||
Fiction Ep (Joyful Noise/Secret City, 2020) | ||
The Witness (Joyful Noise/Secret City, 2021) |