Mano Le Tough

Trails

2015 (Permanent Vacation)
garage-step, house
6.5

Ha ancora senso, nel 2015, parlare di deep-house? La domanda, fin troppo attuale e facilmente ripetibile per nove decimi delle definizioni radicate nel sottobosco elettronico, è già stata posta più volte in passato da queste parti. Torna d'attualità ciclicamente ogni qual volta che qualche media settoriale torna a buttare nella mischia l'etichetta, generalmente in riferimento a qualche nuovo act dedito a oscillare al confine tra atmosfera e clubbing. Un destino che quest'anno era toccato, fra gli altri, ai Concubine e riguardo il quale gente come Fort Roumeau e Efdemin (ma più in generale molti artisti di casa Dial) sa più di qualcosa.

Anche per Nial Mannon in arte Mano Le Tough non si tratta di una novità, e il marchio Permanent Vacation in tal senso non ha propriamente “aiutato” a evitare la ricaduta. Il paradosso è che il Nostro, già dal primo album dato alla luce due anni fa e in maniera ancor più convinta in questo “Trails”, risulta essere figlio più che mai della contemporaneità. Vale a dire sì di quella house che ha riscoperto il suo legame costitutivo con la black music più sinuosa (garage), ma nella sua lettura più attuale, non già più quella urbana e sporca d'asfalto (2-step e dubstep della prima era) bensì quella “da cameretta”, pulita e raffinata. File under: post-FaltyDL.

A convivere in “Trails” sono un po' tutte le passioni attuali e non di Mannon, a partire da quello che pare essere il suo principale ispiratore per approccio: Anders Trentemøller. L'ombra del danese riecheggia forte e chiara fra gli spasmi e i tintinnii di “Running In A Constant Circle”, non fosse per quello spruzzo 8-bit che dalle sue parti non avrebbe mai trovato spazio, ma anche in quella “Half Closed Eyes” che pare ricollocare in un contesto post-lounge i languori di casa HVOB e, soprattutto, nel gioiello “I See Myself In You”, spettrale 4/4 in trip solcato qui e lì da spirali melodiche e candori sintetici.

La struttura ritmica pare essere di fatto il primo luogo di differenziazione tra due “gruppi” di brani: quelli più vicini al dubstep e ai suoi tipici singhiozzi in drop, e quelli più squisitamente affrancati al tipo house. Nei primi risiedono probabilmente gli episodi migliori: l'autentico soulstep alla maniera dei primi Cloud Boat di “Empty Early Years And The Seed”, l'ipotesi radioheadiana di “The Space Between” e la nostalgia assortita su drop bass cupi di “Generations”, forse il pezzo migliore del lotto. Sull'altro versante si collocano invece gli episodi più retrò: dalla title track, memore di un certo sound di casa MoS ma “rivitalizzata” da un finale a punture analogiche, alla plasticosa (e tutt'altro che convincente) doppietta finale “Sometimes Is Lost”-“Mellen”.

Questi ultimi sono però due episodi isolati, due eccessi di zelo che denunciano la necessità ancora tutta da perseguire di una maggiore spinta verso la sintesi. Per il resto tanti spunti, molta carne al fuoco e un'ottima capacità di tenere le fila: elementi che confermano le ottime impressioni e che spazzano via, una volta per tutte, lo spettro di certe banalizzazioni semantiche. Chi abbia voglia di “rifugiarsi” nelle tonnellate di noia partorite in gran quantità a inizio millennio sotto l'etichetta deep-house cerchi altrove.

11/12/2015

Tracklist

  1. Running In A Constant Circle
  2. Generations
  3. Energy Flow
  4. Half Closed Eyes
  5. Empty Early Years And The Seed
  6. I See Myself In You
  7. Trails
  8. The Space Between
  9. Sometimes Lost
  10. Meilen


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