Ormai Umberto Maria Giardini ha abbandonato da tempo il precedente progetto e gira da un po’ con l’attuale vita artistica legata al proprio nome di battesimo, ma la prima domanda che viene sempre in mente quando propone qualcosa di nuovo è: “Quanto è diverso rispetto a Moltheni?”. Se pensiamo all’ultimo album “I Segreti Del Corallo” poco, però ogni volta Giardini fa un piccolissimo passo di allontanamento verso qualcosa di nuovo, né più e né meno di quello che avrebbe fatto tenendosi il vecchio moniker probabilmente, ma le vie dell’ispirazione artistica sono infinite e se all’autore marchigiano serviva questa scossa per continuare a produrre buona musica, ben venga.
Questo secondo album ha indubbiamente alcune caratteristiche che lo distinguono dal resto della produzione del Nostro: il suono, infatti, unisce in modo totalmente bilanciato pienezza e rotondità e si basa un po’ meno sulle chitarre, poiché in alcuni momenti le tastiere, il pianoforte e gli archi hanno un certo peso, pur senza avere un ruolo di primo piano; inoltre, il cantato si adegua all’attitudine sonora, risultando sempre morbido, lasciando da parte le ruvidezze del passato e rinunciando addirittura al classico modo di trascinare le vocali che era un po’ un marchio di fabbrica di Giardini. Anche quando le stesse sono un po’ allungate, manca proprio l’effetto trascinamento.
Potrebbero sembrare quisquilie, ma in realtà sono aggiustamenti atti a far sì che si respiri un’aria parzialmente nuova. Una cosa che non cambia è lo stile molto particolare con cui l’autore scrive i propri testi, tra metafore ardite ma efficaci e cambi di ambientazione repentini e formalmente privi di senso logico, ma che portano con sé tanto fascino. Cambia un po’ il bilanciamento tra vicende d’amore e riflessioni sul mondo in generale tra gli argomenti trattati: in questo caso le prime sono in netta minoranza rispetto alle seconde.
A questo punto è giusto domandarsi, al di là del giochino di trovare le differenze, se questo sia un bel disco o no. La risposta è affermativa: in quasi tutte queste canzoni c’è un’ottima ispirazione melodica che si accoppia perfettamente con il suono, il timbro vocale e i testi descritti. La conseguenza di questo risultato è che, come sempre, la prima cosa che arriva all’ascoltatore è l’impatto emotivo trasmesso dall’artista. È un impatto diverso, con meno rabbia e più disillusione, e se vogliamo questa evoluzione è la stessa che avviene in ogni essere umano nell’approccio alle difficoltà della vita.
Giardini si mostra qui per la prima volta come un uomo navigato, che sa come vanno le cose e cerca di mantenere le proprie sicurezze invece che farsi trascinare dai problemi. Due brani, in particolare, meritano di essere segnalati: “Il Vaso Di Pandora” grazie soprattutto al poderoso crescendo nella seconda parte, e la successiva “Seconda Madre”, sorretta da un binomio melodia-testo particolarmente coinvolgente. Il quasi di cui sopra, invece, si riferisce a un paio di episodi un po’ troppo statici, senza che questo problema venga sopperito da un’eventuale capacità di creare atmosfere suggestive: si tratta di “Sibilla” e “Urania”, che sono posizionate una dopo l’altra nell’ultima parte del disco.
Un paio di passaggi a vuoto non inficia certo la qualità complessiva del lavoro. Umberto Maria Giardini è sempre più uno degli artisti maggiormente riconoscibili e dalla personalità più spiccata nella musica italiana tutta, e a circa quindici anni dal suo primo album è ancora capace di scuotere l’ascoltatore regalandogli vibrazioni forti.
12/02/2015