“Se lo volessi dire, direi che il mio talento è uno sguardo, un incanto fisso su ciò che non si può capire […] Non prerequisiti. Solo quesiti”.
A ben guardare, esiste una frattura di carattere tematico nel fluviale dis-corso artistico degli Uochi Toki. Dovessimo indicare un discrimine preciso, sarebbe il brano “La lingua degli antichi” contenuto in “Idioti”, seguito a stretto giro dall'Ep “Distopi”. In tali frangenti si annida il principio di quella che potrebbe verosimilmente diventare un'ossessione, addirittura il fine ultimo del progetto: il disvelamento dei limiti del significante e il conseguente tentativo di superarli; la “lingua totale” creata per il lavoro coi Nadja è solo uno degli scenari immaginabili, una volta spodestato il dominio dell'espressione ufficiale, condivisa, plurale solo quando conviene.
“Il limite valicabile” è una riemersione allo strato superficiale dell'oratoria, un ritorno cosciente alla forma del libro audio che caratterizza i Nostri sin dagli esordi (l'eponimo del 2009 ne è solo il manifesto più compiuto), ma che porta con sé anche lo straniamento di chi torna a usare il nostro lessico per fare ordine, ricucendo le frattaglie di un pensiero ormai talmente autonomo da apparire inevitabilmente sfilacciato, incoerente e più che mai autoreferenziale.
Non un doppio, ma un disco dualista: “contenere moltitudini” porta alla contraddizione – e d'altronde, se qualcosa è valicabile significa che non si tratta di un limite – le certezze sono illusorie e “le conferme fanno tornare indietro”. Rico e Napo rivendicano la loro cultura e matrice rap per poi annunciare “La fine dell'era della comunicazione” nel secondo cd, dunque anche l'azzeramento di quella stessa dialettica che li ha formati.
“Un disco rap”, con tanto di featuring vecchi e nuovi che garantiscono una maggiore fedeltà alle tendenze imperanti dell'hip-hop italico: ospitate che purtroppo, in alcuni casi, ne confermano la generale insipienza e incapacità di innovare il genere – dall'innocuo sguardo nostalgico di Campidilimoni (“Bim Bum Cha”) alla stucchevole enfasi narrativa di Murubutu (“Rest In Prose, Rest In Poetry”), già ampiamente dimostrata in veste solista. Un esempio per tutti è proprio l'approccio alla poesia: se molti dei rapper nostrani tentano in vario modo di ergersi a nuovi “Vati di strada” in rima baciata, proponendoci un surrogato esistenzialista senza spessore, Napo preferisce andare di persona a Recanati, osservare “quella siepe” salvo poi scoprire che anche solo per avvicinarsi a una lettura autentica di Leopardi è prima necessario eliminare secoli di critica letteraria, di programmatica analisi scolastica e di stereotipi. La disparità si fa più interessante in presenza del comprimario collaudato Mula/Zona MC e di Miike Takeshi, il cui vertiginoso flow occupa metà del brano più esteso e decisivo di questo primo cd (“Talento e merito tradotti in inglese diventano altre cose”).
Dalla pratica alla teoria – si fa per dire – passando dall'altra parte ci addentriamo in una "realtà sistemica dove il tutto ha un solo verso ma composto di versi che, tra loro divergenti, mostrano aspetti differenti ulteriorizzandone il percorso, di secondo in secondo". Viene instaurata, insomma, la supremazia del meta-testo: un trattato di filosofia alternativa sul divario tra ciò che diciamo e ciò che significhiamo, contro l'abuso della parola che perde ogni peso nell'accumulo e nella ripetizione.
Riflessioni più brevi e dirette del solito, che molto spesso eludono non soltanto la rima – mai stata una prerogativa di Napo – ma persino l'assonanza; figuriamoci che ne è dei bpm, come spezzettati e ricomposti secondo l'insegnamento degli Autechre, già citati un disco fa, e del testamento artistico dei Pan Sonic, sino all'astrazione più completa de “La mosca nell'organonico”, parte di una seconda metà interamente strumentale. Una Flatlandia dalla ritmica schizoide (“io vado a tempo, e il mio tempo varia”) in cui regna il silenzio della mente e del sentire umano ma dove si insinua anche, forse per la prima e ultima volta, qualche breve afflato melodico (“LFDEDC”, con Matteo Marson).
Il futuro non si prevede, vince chi sa inventarlo meglio: la distopia degli Uochi Toki ci dice che il nostro linguaggio imploderà e con lui anche la comune concezione dello spazio-tempo; l'entropia e l'incompletezza avranno certamente la meglio, come in questo caotico album dove la carne al fuoco diventa difficile da gestire persino per il duo di Alessandria che comunque, a dispetto delle dichiarazioni d'umiltà, continua a farsi portatore di una linfa avanguardistica senza pari, tanto nei concetti quanto nella forma musicale.
La conclusione di un racconto che ogni volta sembra giungere al capolinea è stata rimandata di nuovo: se anche tutto fosse già stato detto, sentito e visto, comunque “il film finisce quando smetti di pensarlo”.
09/03/2015