Jean Michel Jarre

Oxygene 3

2016 (Sony Music)
elettronica

"Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te". A Friedrich Nietzsche l’intuizione dell’eterno ritorno (qui descritto in un passo della “Gaia Scienza” del 1882), sovvenne a 37 anni a oltre 1.800 metri di altezza, durante una passeggiata vicino al lago di montagna di Silvaplana, in Engadina. A Jean-Michel Jarre l’assunto della ciclicità infinita del tempo e delle vita viene sussurrato a 68 anni dal demone implacabile degli anniversari e dei contratti discografici sulla cima di una montagna di collaborazioni (il doppio album “Electronica”).
Ma al netto delle pastoie commerciali a cui ogni artista di fama internazionale deve in diversa misura soggiacere, specie dopo aver venduto 15 milioni di copie del primo album e aver stabilito il record (tuttora imbattuto) del disco più venduto della storia musicale francese, l’eterno ritorno di “Oxygene” viene accettato da Jarre con uno stoico abbandono che lo rende in qualche modo più naturale e ineluttabile della tautologica genealogia dei tanti “Tubular Bells” forgiati tra il 1973 e il 2003 dal suo omologo britannico Mike Oldfield (che per non smentirsi ha già in serbo per gennaio il primo ritorno ad “Ommadawn”). Perché, a dispetto della sua dichiarata riluttanza a iniziative e opere celebrative (nonostante i suoi concerti più memorabili siano tutti legati ad anniversari) per un’ingenita universalità audio-poetica la sua “cosmologia oxygeniana” resta ancora oggi quella che più di altre si presta ad essere ampliata e riesplorata, quasi fosse un’autosufficiente sinfonia incompiuta le cui parti potrebbero susseguirsi all’infinito nella configurazione di una mesosfera mentale dove le onde sonore si spandono e si rifrangono al di fuori dello spaziotempo.  

Forse in alternativa a “Oxygene 3” e “Oxygene 14-20” (come correttamente riportato sul disco contenuto nella versione Trilogy in contiguità con “Oxygene 7-13” del ‘97) per questa terza prospettiva tutta strumentale di circa 40 minuti, sarebbe stato più calzante il titolo di “Oxygene 2016”, in sintonia con quello scelto per un altro inaspettato e altrettanto auspicato/temuto sequel, il “Blade Runner 2049” le cui riprese da poco terminate ambiscono a visualizzare la Los Angeles di Rick Deckard in un’epoca tarda di quello stesso mondo immaginario. Si tratta appunto, per dirla con Nietzsche, della conquista (o riconquista) della realtà interiore attraverso il riconoscimento dell’identità tra essere e divenire, tra eterno Passato ed eterno Futuro. Nel suo caso Jarre si ritrova investito dell’ingrata missione di auto-omaggiarsi evitando l’auto-clonazione o l’involontaria contraffazione (rischio scongiurato ai tempi di “Chronologie”, energico e riuscito restyling di “Equinoxe, e parzialmente evitato con “Oxygene 7-13”) nell’ipotesi che il Jarre ventottenne che compose il primo “Oxygene” nella cucina del suo angusto appartamento parigino di Rue de La Trémoille si ritrovasse catapultato in questo 2016, nel bel mezzo della deflagrazione trasversale della musica elettronica e dei tanti revival generazionali dove la disco anni 70 e il pop anni 80 vengono compostati e rimantecati sugli stessi piani cottura della dance, della techno, della trance, della house, del trip-hop e di tutto quello sterminato e a tratti inintelligibile calderone Edm. Che poi sia vero o meno che, terminato il mastering del secondo sovraffollato “Electronica”, all’inizio dell’anno Jarre si sia davvero imposto sei settimane quale limite massimo ai tempi di composizione per replicare la purezza istintuale del primo lavoro, a un primo ascolto è arduo scrollarsi di dosso l’impressione che le sette nuove parti siano state impiattate l’una sull’altra su un Macbook, recuperando frettolosamente bozze, demo e outtake accumulate in cinque anni, in una sorta di crepuscolare jamming session condotta su una manciata di sequencer intorno a uno standard sfuggente, al termine di una frenetica notte danzereccia a tema trance.

Già dall’apertura della prima parte, tre note di basso crescenti modulati due volte su un Moog prima della detonazione “in medias res” di un aspro e tagliente sequencer, viene marcata una cesura profonda rispetto alle più ondulate e dense spire atmosferiche in cui flocculava l’aria bachiana dell’overture del 1976. Solo un pensoso e scarno ritornello su un inatteso piano elettrico che si alterna a una fibrillante e spaziale escursione di ottave offre una prima rassicurazione riguardo alla presenza di un rarefatto “trait d’union” melodico che tuttavia, da qui alla ventesima parte, si limita a barlumare a distanza dietro stratocumuli di svolazzanti tappeti Eminent e rumore bianco virato a colpi di VCS-3 e Swarmatron in crepitii, ansiti, sgocciolii, sbuffi e refoli. La traccia evolve in un fluido crescendo in cui il flebile motivo si avvita su se stesso, domando le mutazioni di tempo del sequencer in combutta con arpeggi cristallini e fosche stoccate di Elka Syntex, colore anch’esso inedito nella tavolozza oxygeniana. La pudica irruzione della classica base percussiva del Korg Minipops nella quindicesima parte sembra reinstradare il flusso in un’esitante palpitazione psytrance incisa in un silenzio siderale limitrofo a quello in cui nuotano i sognanti incubi dei Tangerine Dream di “Phaedra”, concepito al solo fine di trascinare, dopo un’incongrua pausa gassosa, in un più consapevole e strutturato “score” da schermata d’apertura di un videogioco anni 80. Gli archi che volteggiano e orbitano intorpiditi sullo sfondo della sedicesima parte sembrano rincorrere il tema del “Turrican 2” di Chris Huelsbeck, mentre le basiche interpunzioni pulsanti rinviano direttamente agli effetti del Sid chip del Commodore 64, citazioni che potrebbero sottintendere un riconoscimento ai vari musicisti del mondo videoludico anni 80 che trasposero in righe di codice Basic le musiche dei primi dischi.

A loro volta dall’angosciosa cupola troposferica creata per il film “Gravity” da Steven Price provengono in larga parte le tortuose sequenze rumoristiche che tranciano questo brano (e la parte 19) allorquando sembra essere sul punto d’involarsi in una sontuosa ensemble intergalattica, irrobustita magari da cori di Mellotron o dai latrati da tregenda del Theremin. Barbagli del mistico “esprit de finesse” che informava il primo Oxygene balenano in queste lunghe transizioni modellate con il piglio di un sobrio John Zorn della “musique concrete” che si delizia a dilatare quanto più possibile l’attesa dell’ascoltatore, inabissandolo in tetre conche audiosferiche trapassate da inquisitorie note sparse (replicando alla fine della parte 16 quelle ribattute sulla parte 3 del ’76). Caos audio-allegorico che, nella sua irruente e torbida casualità, esprimerebbe anche l’irrazionale precarietà della vita quotidiana del cittadino del terzo millennio che al mattino, uscendo di casa per incontrare l’amato, potrebbe invece imbattersi nella morte per mano di terroristi (secondo quanto asserito da Jarre, riferendosi alle stragi parigine nell’intervista rilasciata nel giorno della pubblicazione).

Alquanto esogena e surrettizia dopo questi primi spiazzanti 19 minuti, sopraggiunge la parte 17, astrale cotillon electro-lounge svelato nell’encore offerto durante il concerto al Motor Point di Cardiff del 4 ottobre, con tanto di animazione tridimensionale del teschio terracqueo di Michel Granger a roteare sul palco come un planetario (e non a caso in quello parigino del Palais de la découverte Jarre presenta il 23 novembre l’anteprima pubblica dell’album). Lanciata il mese dopo come hit-single sulle piattaforme streaming e supportata infine da un videoclip in cui (tra rimandi agli shuttle e astronauti presenti in quello di “Rendez Vous”), a suggerire un’ulteriore correlazione storica tra Oxygene e lo spazio, in risposta più o meno intenzionale al recente “Rosetta” dell’alter ego ellenico Vangelis, vengono riportate le date dell’8 e del 15 agosto 1977, quelle della pubblicazione del singolo di “Oxygene 4” e della ricezione del segnale radio extraterrestre “Wow” captato dall’astronomo Jerry R. Ehman. Unico perno astutamente melodico dell’opera, collocato com’è ad apertura del lato B del vinile alla stregua di precedenti hit jarriani, non fa alcun mistero di voler essere la terza e ultima reincarnazione del classico del '76, del quale recupera la morfologia dance-pop ed estrapola il riff di Eminent eseguito per il ponte per aggiogarlo qui a un più articolato ritornello a due voci, condotto dal suono gorgheggiante del MicroKorg già impiegato tredici anni prima per il lungo solo di “Geometry Of Love” e le ultime note possenti del giubilante “Rendez Vous 4” dell’'86. Corrispettivo abbreviato del movimento ambient di “Oxygene 5”, nella parte 18 rispuntano diamantine le tre note di piano Rhodes gemmate dalla prima traccia, adesso centellinate su uno struggente stuolo aeriforme che potrebbe persistere virtualmente per altri dieci minuti, candidandosi a divenire la protrusione del suo diretto consanguineo emotivo, “An Ending (An Ascent)” di Brian Eno.

Dal prototipico “Windswept Canyon” contenuto in “Deserted Palace” del 1972 discende la levitante marcia trance della parte 19 inizialmente proposta e poi abbandonata per la collaborazione di “Stardust” con Armin Van Buuren (già ascoltabile nel segmento di uno special mix di “warm up” propedeutico a un concerto del 2010). Qui si anniderebbe il germe creativo del disco, in virtù del quale il progetto nascerà “ex abrupto” nel corso della promozione di “Electronica” sotto l’auspicio di soddisfare le pressanti richieste della casa discografica senza svilire la reputazione poetica dell’opera, rivedendo, più che riproponendo in maniera pedissequa, il concept di “Oxygene” da un’angolazione diversa, di tre quarti, così come illustrato (con ostentata ovvietà) nella variante dell’immagine di copertina. Il brano riassume questo conflittuale dualismo, che è in definitiva il “quid” stesso dell’intera operazione, nella ricerca di un armonico minimalismo che riesca a far coesistere il suono bubbolante del lead theme di “Oxygene 4” con uno spastico sequencer techno-trance che prende quota fino allo stacco centrale, dominato da un’unica nota sospesa, riverbero di luce nell’oscurità dello spazio incombente, prima di rilanciarsi in un’ultima rincorsa culminante nelle teatrali sferzate d’organo alla Deadmau5 di “Ghost N Stuff” che sanciscono l’inizio dell’epilogo (disperato Sos lanciato dalla Terra nel vuoto dello Spazio in risposta al segnale Wow, simbolico “coup de theatre” suggerito molti anni prima dall’amico Arthur C. Clarke).

Siamo ormai in pieno clima para-cinematografico: in lontananza la rumba malinconica di “Oxygene 6” (chiusura del primo capolavoro) veleggia e svanisce tra tuoni e umide minacce di tempesta come la “Band in the rain” a introduzione di “Equinoxe 8”, indicando con arguzia metanarrativa il ritorno su quella stessa spiaggia ora svuotata della risacca del mare e del pigolio dei gabbiani, in attesa dell’ecatombe finale che spazzi via le ultime tracce di vita terrestre. La scalinata purgatoriale di archi e di organi ripresa da quelli protesi da Hans Zimmer verso il buco nero di “Interstellar”, s’innalza con mesta imponenza operistica nei 5 minuti finali, e tra trillanti lamenti trascina e consuma con sé tutte le 20 parti nel piccolo falò crepitante dove vengono bruciate le ultime molecole di ossigeno.
C’è tutto il fardello del quarantennio intercorso tra quel 5 dicembre del ’76 e questo 2 dicembre del 2016 nel desiderio di trovare un rifugio dall’ansia dell’esser condannati a ripetere se stessi. Ecco perché tra le tante pause e vuoti dentro cui vengono lasciati a vibrare e svaporare temi e suoni irrisolti, Jarre sussurra il sortilegio funebre di un’epopea che nella sua natura fondativa ha definito uno stile e un’attitudine artistica, un “élan vital” che ha trasceso le intenzioni dell’autore superando il fenomeno musicale e le tendenze transitorie dei decenni.“Inspirazione” che, con o senza trilogie e varianti, vivrà del suo eterno ritorno nelle orecchie e nella memoria di chi inspira ed espira in onore di chi non può più farlo e di chi lo farà per la prima volta, dentro il tempo ciclico in cui l’osso si trasforma in stazione orbitale e vascello spaziale per raggiungere l’ignoto supremo.

O Zarathustra, pietra filosofale, pietra lanciata da fionda, tu che frantumi le stelle! Hai scagliato te stesso così in alto, – ma ogni pietra scagliata deve cadere! (...) Una salita senza fine non è possibile, poiché lo impedisce il tempo senza fine.
(F. Nietzsche)

05/12/2016

Tracklist

  1. Oxygène Part 14
  2. Oxygène Part 15
  3. Oxygène Part 16
  4. Oxygène Part 17
  5. Oxygène Part 18
  6. Oxygène Part 19
  7. Oxygène Part 20

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