Sono già trascorsi quindici anni dall'invenzione del Telharmonium, primo e pressoché inutilizzabile strumento elettrofonico ideato dall'americano Thaddeus Cahill, quando il futurista italiano Luigi Russolo, nel suo manifesto "L'arte del Rumore" del 1913, vaticina la conquista della "varietà infinita dei suoni-rumori" resa possibile dal moltiplicarsi di macchine capaci di generare una tale "varietà e concorrenza di rumori" da derubricare il suono puro ad anacronistico e anempatico retaggio del silenzio della vita antica. Il ricorso al gioco linguistico del "portmanteau", le "parole-baule" ideate da Lewis Carroll, è dunque più di un mero esercizio di relativismo lessicale per Jean Michel Jarre che, citando foneticamente il manifesto di Russolo nel titolo ad effetto "déjà connu" dato alla seconda parte del progetto conviviale di "Electronica" varato nell'ottobre 2015 con "The Time Machine", ne incapsula i riverberi storico-biografici e le ripercussioni concettuali sul filone di sperimentazioni e "devianze musicali" avviato nel 1951 da Pierre Schaeffer con quel Groupe de Recherches musicales che a Parigi si fece fucina operativa del movimento della musica concreta e al quale, nel 1969, il giovane lionese aderì guidato dall'insofferenza al "limitato cerchio dei timbri della vita moderna". Eppure, più per motivi cronologici che d'intenzione semantica, in prima battuta "The Heart Of Noise" non può non suonare come un arguto calembour allusivo verso i britannici Art of Noise capitanati da Trevor Horn (forse un'ammenda sibillina per la loro assenza dal progetto), folgorati e tassidermizzati dal successo dell'ossessivo valzer di campionature proto-chill out di "Moments In Love" pubblicato nel 1983, un anno prima dell'affine patchwork jarriano "Zoolook" (che in virtù della sua ambizione "concretamente pop-futurista" più di questo secondo volume avrebbe all'epoca meritato il logline di "il cuore del rumore").
Laddove nel primo volume le tracce strumentali si alternavano a brani cantati nel rispetto di una sorta di scala logaritmica delle varianti musicali determinate sia dall'impianto tematico dell'album che dalle preferenze personali di Jarre, nel secondo il compositore tende a concedersi il beneficio di licenze poetiche tanto ardite e surettizie da giustificare abbinamenti di audace dissonanza tra stili e artisti (sopratutto cantanti), finendo con il trasmettere una sorta di straniante vertigine "acusmatica" (in parte ricercata, in parte effetto collaterale del pastiche creativo) nel corso dell'ascolto sequenziale di tutte le diciotto tracce, quasi a dare l'impressione che l'intera opera sia l'ipertrofica appendice di "Metamorphoses", album di analoghe collaborazioni canore pubblicato nel 2000 senza grande riscontro di vendite e critica.
A suggerire una labile omogeneità atmosferica se non proprio stilistico-narrativa è solo la title track che, nata sulla base di un frugale e inquieto "ritournelle" scortato da cupe percussioni tremolanti, abbozzato in una delle prime demo create in solitaria agli albori di "Electronica" e inclusa in chiusura dell'opera, s'inarca ad abbracciare idealmente il quadruplo album costruendo al contempo un "ponte tibetano" verso i turbamenti interplanetari delle suite degli anni 70 e 80, come a rimarcare l'identità pioneristica di Jarre tra la pletora di ibridazioni sonore partorite in coppia. L'apporto della matricola della "minimal techno" francese Erwan Castex, in arte Rone, traluce infatti nella prima parte del brano in funzione reverenziale, contribuendo a saldare tra loro i sintagmi cardio-sinfonici di quella che si presenta come una classica overture imbevuta di mesta grandeur bladerunneriana e fibrillazioni elettriche captate tra Aphex Twin e Royksopp, salvo arretrare nella seconda dove Jarre prende il comando per far detonare la melodia dentro una frenetica e febbrile spirale dance che si inabissa infine in un gorgo di rumore bianco.
Spiazzante ma efficace nella sua solidità di singolo synth-pop da primi anni 90 sopraggiunge "Brick England", brano in cui l'emulazione stilistica dei collaboratori di turno sfiora il virtuosismo mimetico, lasciando campo libero alla voce iconica di Neil Tennant che salmodia con rassegnato distacco (e "quiet desperation", direbbe Richard Wright) di una tetra Inghilterra neo-dickensiana dove muri e città vengono abbattuti e ricostruiti senza posa (immagine simbolica quanto mai profetica di quel che sarebbe avvenuto con la Brexit), mentre Jarre si ritaglia un breve assolo di "keytar" per riprendere il refrain e calare la canzone nella sua personale dimensione techno-britannica affrescata nel 1988 con "Revolutions" e soprattutto i concerti di "Destination Docklands".
Quantomai esoterica e irrisolta nelle sue istanze espressive, "These Creatures" frena il ritmo fin qui implacabile della tracklist adagiando i gorgheggi simil-campionati dell'americana Julia Holter su un'aria edenica tratteggiata in punta di sequencer e tappeti celestialmente solenni che cerca in ogni modo di evocare gli stati di grazia delle prime Kate Bush, Elizabeth Fraser ed Enya. Come a riafferrare l'ultimo verso lasciato a fluttuare nel silenzio dalla Holter subentra "As One", un remix anthemico dell'interminabile brano afro-rock "Come Together" pubblicato nel 1992 dagli scozzezi Primal Scream, che s'insinua a dorso di un lungo gemito giubilatorio in omaggio a quello che apriva "Ethnicolor" per poi tramutarsi, a differenza di quest'ultimo, in un ben più generico inno europop da evento sportivo decorato da brevi sezioni cantate da una voce vocoderizzata alla "Eiffel 65".
Segna invece il ritorno sul tracciato di un esile sottottesto socioantropologico "Here For You", canzone eseguita dall'aristrocratica voce atonale dell'inglese Gary Numan, esponente della new wave elettronica 70 e 80, sull'ennesima e sorvegliata filatura di grevi palpitazioni poptroniche nel proposito di descrivere le "non-relazioni" a distanza così frequenti tra gli utenti dei social network. Ma il timido accenno di critica culturale che con Numan avrebbe potuto assumere inflessioni molto più psicotiche viene interrotto dalla dietrologia sinfonico-cinematografica di "Electrees", che con il suo maestoso crescendo sidereo descritto lungo una parabola di arpeggi modulari, esplosioni di gong e cori infantili, si squaderna come il prologo di una soundtrack che il teutonico Hans Zimmer e Jarre preferiscono tuttavia tratteggiare in nuce nell'ipotesi (comunque intrigante) di un mash-up tra quella di "Interstellar" e quella di "Tron Legacy" a firma Daft Punk.
Col passare degli anni e il consolidarsi prima del suo ruolo di portavoce dell'Unesco e in seguito di presidente del Cisac (Confederazione internazionale degli autori e compositori), Jarre fa sempre meno mistero delle sue posizioni ideologiche e non si perita in più occasioni di sostenere in pubblico figure politicamente "liminari" come Julian Assange ed Edward Snowden, ricercati internazionali per lo scandalo Watileaks il primo, e la fuga di dati dall'agenzia della Sicurezza Nazionale Americana (Nsa) il secondo. Sotto il profilo prettamente musicale, "Exit", una nevrastenica fuga techno-dance ribollente di sample ed effetti da sound-design, si autoassolve dal non trovare appunto una sua "uscita", ossia una risoluzione estetica, qualificandosi solo in quanto cornice del monologo centrale di Snowden, che Jarre incontra di persona nel suo rifugio segreto di Mosca, per registarne voce e volto a mo' di monito contro il controllo e la manipolazione indiscriminata dei dati privati ad opera degli enti governativi. Ulteriore deroga al "politically correct" è anche il pruriginoso rap di "What You Want" imbastito sul loop della base percussiva di "Magnetic Fields 2" con la canadese Peaches, la cui pittoresca carriera è da sempre fondata sulla sistematica irrisione del sessimo, così come la sarcastica e spigolosa filastrocca dream-pop che l'irsuto Sebastian Tellier, lunare cabarettista-chansonnier della new wave francese autodichiaratosi "figlio di Jarre", dedica alla bambola erotica "Gisele" dalla fredda pelle di plastica, "tutta corpo e niente anima", rappresentazione satirica di una contemporaneità divorata dal materialismo edonista e dall'abuso amorale della tecnologia.
In "Swipe To The Right" il tema delle idiosincrasie alienanti connesse alla bulimia tecnologica ricorre per un'ultima volta grazie all'interpretazione della newyorchese Cyndi Lauper, ipostasi vivente della cultura pop anni 80, che con enfasi adolescenziale "de-canta" la superficiale precarietà dei rapporti amorosi all'epoca di "Tinder", applicazione che liquida l'interazione tra sconosciuti, illusi di poter flirtare in un esibizionistico anonimato, nel tempo di una "strisciata a destra". Divisa in due parti, la lunga "outro" della canzone riporta in primo piano la tastiera di Jarre che intesse una sinuosa variazione della melodia in chiave dissintonica sulla ritmica di "Oxygene 6", citato fino all'aggiunta della risacca marina in segno di autotributo dettato dalla natura "audio-autoreferenziale" che costituisce per molti versi il sostrato di "Electronica".
Questo a riprova di come la vocazione strumentale e avanguardista di Jarre fatichi comunque a piegarsi del tutto alle esigenze enunciative dei testi cantati. Ecco allora che a diciannove anni dal controverso "Toxygene" (escluso da Jarre dalla compilation di remix dedicata a "Oxygene 7-13"), la complicità elettiva con i londinesi The Orb viene riabilitata e sancita da "Switch On Leon" a titolo di ritrovata sintonia. Pur non vantando alcun legame con "Switch On Bach" di Wendy Carlos, il pezzo offre una convincente digressione didattico-dadaista attraverso la storia degli strumenti elettronici che rimodella e incastona tra loro in un vorticoso carosello protoplasmico le voci del russo Leon Theremin, inventore nel 1920 dell'omonimo strumento basato sulle alterazioni del campo d'onda, della virtuosa Clara Rockmore, strumentista che per prima gli diede dignità musicale eseguendovi arie di Saint-Saens e Bach, e del leggendario Robert Moog, al cui genio inventivo Jarre deve gran parte della sua avventura artistica. Nell'occhio di questo tornado ipersonico pulsa minaccioso un basso cosmicheggiante intorno al quale si adunano e caracollano balbettii oltremondani e l'ululio dell'irrinunciabile theremin che accenna uno spettrale motivo melodico, prima che il sinistro "Hellzapoppin'" agonizzi e si sfilacci tra frequenze disturbate e fruscii radiofonici.
Dalla collaborazione con gli Yello, sagaci picari elvetici del sampling d'autore, ci si sarebbe aspettati una altrettanto sfrenata carambola di trovate rumoristiche, sennonché il brano "Why This, Why That, And Why" risulta essere la versione recitata in stile "teatro canzone" di un testo già arrangiato prima dell'incontro con Jarre come una più canonica ballata con accompagnamento di chitarra acustica. In questa seconda incarnzione Dieter Meier borbotta pensoso con la sua potente raucedine da detective hard-boiled sugli interrogativi esistenziali della condizione umana, arcionato a un andante sconsolato che Jarre allenta tra una strofa e l'altra con il ritorno del coro infantile di "Glory" ed "Electrees" a drammatizzare lo staccato della melodia portante.
Più lievi e autocompiaciuti i duetti con il mago-dj di Detroit Jeff Mills, che insieme a Jarre in "The Architect" diventa archistar dei suoni per progettare ed edificare un fantasioso quanto diafano compound abitativo fatto di brulicanti sequencer e vetrate policrome di drum machine lastricate da sferzate di archi, e il tedesco Siriusmo col quale in "Circus" il lionese si cimenta nell'evocazione del clima folclorico-favolistico del mondo circense nel motivetto sofisticamente naif che si avvita su se stesso sopra un clapping sincopato.
Mentre in "The Time Machine" le presenze più significative in termini storico-artistici erano state quelle di Edgar Froese (decano dei Tangerine Dream scomparso nel gennaio 2015) e di Pete Townshend degli Who, terzultimo nella tracklist si riaffaccia il dandy "revenant" Christophe, cantore dei "mots blues", le "parole blu pronunciate con gli occhi" in quel lontano 1974 che decretò il primo successo del Jarre paroliere. Stavolta l'italo-francese Daniel Bevilacqua pone al servizio di una claudicante marcia acid-blues un falsetto anglofonetico derivativo di quello insufflato dal David Lynch in "Crazy Clown Time", che potrebbe essere la voce frustrata di quello stesso amante, ora invecchiato, in attesa di dichiararsi all'amata al rintocco delle campane serali; quell'amata che adesso lo "avvolge e si fa avvolgere nel dolore" nel corso del suo funereo procedere lungo il miglio dei condannati a morte. "Doppelganger" canoro di un Jarre mai così dichiaratamente disincantato e decadente, con la sua armonica allucinata che garrisce nella coda del brano tra percussioni singhiozzanti, Christophe celebra infine una cerimonia sciamanica con cui invocare e rievocare "tranche de vie", passioni, sofferenze e paradisi perduti all'ombra di quel finis vitae che Jarre ha sperimentato in prima persona con la scomparsa nel giro di pochi mesi dei genitori e del suo storico produttore Francis Dreyfus.
Di scongiurare il nichilismo implicito al "memento mori" di "Walking The Mile" si propone il successivo "Falling Down", artificiosa regressione alla giovinezza in cui Jarre immagina di collaborare con il se stesso ventenne in una pseudo-sigla televisiva di un anime degli anni 70 esitante tra il clima cartoonesco dei Daft Punk di "Interstella 5555" e un disimpegnato jingle da videogame a 16 bit.
Al capolinea di questa omerica traversata a bordo del suo Tardis autobiografico Jarre si scopre perso nell'afonia assoluta e liberatrice dello spazio profondo. Come un astronauta alla deriva del film "Gravity", si chiede se nello spazio sia davvero possibile distinguere tra un sopra e un sotto, ripetendosi, con solipsistico smarrimento, di star precipitando verso il basso mentre naufraga nelle altitudini sconosciute alla gravità terrestre, magari alla ricerca del battito autentico del proprio cuore, suggellato e a volte dissimulato in oltre due ore da tanti pacemaker e bypass musicali confusi nell'infinita varietà dei suoni-rumori: "The Noise Of Heart", appunto.
(Alessandro Fantini sul web)
08/07/2016