Il French touch al tempo dei corrieri cosmici. Il contatto tra due mondi lontanissimi - l'elettronica sperimentale e la musica pop - che iniziarono finalmente a dialogare, gettando le basi per futuri, eccitanti rendez vous.
Jean Michel Jarre è alchimista, ancor prima che compositore e musicista. Un alchimista ardito, in un'epoca in cui le barriere "ideologiche" tra generi sono più spesse della cortina di ferro. Anch'egli, perciò, non scamperà alla scure dei critici integralisti, pronti a intravedere nei suoi tratti gentili la sagoma demoniaca del "divulgatore", analogamente a quanto già accaduto agli eretici Kraftwerk svoltati nell'autobahn del synth-pop.
Certo è che, nel 1976, elettronica è quasi solo sinonimo di algide e spigolose partiture siderali, tangenti l'atonalità e appannaggio di un ristretto pubblico di avanguardisti. Una scena gloriosa, che tuttavia comincia a dare qualche segno di stanchezza. L'onda teutonica della kosmische musik di Klaus Schulze, Tangerine Dream e compagni si sta ormai accartocciando in risacca. Ecco allora l'ossigeno francese, a donare una nuova vita, nel segno di una maestosa grandeur. Perché il giovane Jean Michel, rampollo di sangue musicale blu (il padre Maurice è un grande compositore, autore tra l'altro della colonna sonora del "Dottor Zivago"), è ambizioso e punta al bersaglio grosso: fare dell'elettronica una musica per le masse, senza però svuotarla delle suggestioni eteree e metafisiche. Del resto, la sua frequentazione del Groupe de Recherches Musicales di Pierre Schaeffer, pioniere della musica concreta, gli permette di padroneggiare la materia con sicurezza.
Non si tratta, dunque, di flirtare con il formato-canzone, di introdurre parti cantate o vocoder di sorta, ma di innestare le melodie e i ritmi della popular music sull'impianto tradizionale delle suite elettroniche. Magari con una strumentazione interamente analogica, per plasmare un suono più articolato e melodioso. L'idea, tanto semplice quanto geniale, frutterà l'album francese più venduto di sempre con 12 milioni di copie in tutto il mondo.
Eppure, niente lasciava presagire un simile exploit. Il ventisettenne Jean Michel aveva all'attivo solo il flop del suo album d'esordio ("Deserted Palace", 1972) e un'oscura attività di paroliere al servizio di chansonnier come Christophe e Françoise Hardy.
Così "Oxygene" nasce in casa, nel vero senso della parola: inciso nella sala da pranzo di Jarre, convertita a studio di registrazione, nei pressi degli Champs Elysees, con pochi soldi a disposizione, viene snobbato da diverse case discografiche e rischia di restare nel cassetto, finché l'amica Hélène Dreyfus, anch'ella ex-studentessa di Schaeffer, convince il marito Francis, titolare della piccola Disques Dreyfus, a pubblicarlo.
La strumentazione è però di assoluta avanguardia per l'epoca: gli organi elettronici Farfisa ed Eminent 310, la drum machine Korg Minipop (in grado di ricreare i tempi della musica afro-orientale, latino-americana e dance), l'Arp 2600, l'Ems Synthi Aks, il synth armonico Rmi, minimoog, mellotron, più l'eco Revox per riempire i suoni del VCS-3, un modello del primo sintetizzatore europeo acquistato a Londra.
Sepolto tra tasti, cavi e mirabolanti macchine da suono, Jarre fa quasi tutto da solo, traducendo la sua idea di ossigeno in sei movimenti per una tracklist senza titoli (anche questo un azzardo commerciale per l'epoca) e per 40 minuti complessivi di musica, interamente strumentale.
A trascinare il disco nelle classifiche sarà il sinuoso proto-synth-pop del singolo "Oxygene (Part IV)", destinato a divenire un evergreen dell'elettronica e un tormentone da sigle/servizi televisivi: una melodia tanto immediata quanto ipnotica, racchiusa in un involucro di ghiaccio polare (il videoclip immortalerà una marcia di pinguini in Antartide), tra raffiche di vento al silicio e beat accattivanti. Farà scuola, generando innumerevoli cloni, mutuati in salsa elettro-pop-space-disco-techno.
Ma l'intera opera va considerata un'unica suite senza soluzione di continuità (i brani sono tutti miscelati tra loro), all'insegna di un'attitudine multi-stilistica che sfrutta tutte le sfumature di suono e i trucchi dell'armamentario elettronico del periodo. Ecco allora la spettrale ouverture dipanarsi tra giochi d'acqua, vertigini cosmiche e brividi polari, con il vagito funereo dell'Ems Synthi Aks (sorta di simulatore del mitico theremin russo, il più antico strumento musicale elettronico) a evocare scenari post-atomici. Poi l'irruzione in delay degli ululati astrali su una nube gassosa dà il la alla "Part II", una spericolata cavalcata spaziale tra effetti laser, echi e piogge di meteoriti: il synth traccia la melodia principale, assecondato dalle cadenze ossessive e scricchiolanti della drum-machine, finché il suono muta, facendosi alieno, oscuro, e gli effetti cosmici lasciano il posto a raffiche di vento stellare, tempeste di sabbia e cori mortiferi. La natura e l'umanità, dunque, a far da contrappunto al rigore glaciale delle macchine.
Anche l'interludio in C minore della "Part III" mantiene alta la suspence, inscenando una marcia solenne, scandita dal cupo rimbombo del synth e dal fischio stridulo dell'Aks.
La lunga "Oxygene (Part V)" prende l'abbrivio dalla lezione minimalista dei Tangerine Dream: pochi accordi in tonalità minore, atmosfere ambient liquide e oniriche (non distanti da quelle che Bowie sublimerà un anno dopo in "Low"), un lied tastieristico celestiale, quindi, un pattern cupissimo di basso, eseguito al moog, si fa progressivamente strada, deflagrando in un'altra galoppata frenetica che sfuma, infine, nelle onde di un oceano artificiale. Così, su una spiaggia deserta e sconfinata, tra flutti in tempesta e stridii di gabbiani sintetici, si celebra l'apoteosi "impressionistica" di "Oxygene (Part VI)": i tappeti rarefatti dei synth e dei sequencer polifonici incorniciano un'altra melodia epica, puntellata dal ritmo scalpitante (quasi "latino") della drum machine e contrappuntata dal rumore del vento che si tramuta in risacca marina, per un commiato di struggente intensità.
Nonostante l'immediatezza e le melodie, non filtrano raggi di sole nei paesaggi di Jarre, sempre distanti e malinconici. E non è più tranquillizzante il messaggio della celebre copertina, a cura del pittore Michel Granger, che raffigura un gigantesco teschio umano all'interno di un pianeta Terra in disgregazione: quasi una prefigurazione dell'incubo, sempre vivo nei 70, della devastazione dell'ecosistema da parte di una futura civiltà tecnocratica. L'ossigeno rappresenta invece il simbolo del "panismo" cosmico di Jarre, di un neo-umanesimo romantico e naturalista forgiato anche dai suoi studi letterari.
Pur con le sue ingenuità e i suoi suoni inevitabilmente datati, "Oxygene" resta a tutt'oggi un classico, la pietra angolare di una nuova "via francese" all'elettronica, pittorica e orchestrale, impregnata di suggestioni mediterranee. Peccato che dopo le altre due affascinanti saghe di "Equinoxe" e "Magnetic Fields", Jarre abbia progressivamente smarrito la magia del suo tocco, finendo stritolato nella morsa della sua stessa megalomania, tra show faraonici a base di giochi di luci, laser e fuochi d'artificio, e autocelebrazioni fuori tempo massimo, come quell'"Oxìgene 7-13", che nel 1997 tentò un improbabile bis di quella prima, memorabile sinfonia per sintetizzatori.
Dalla sua parte resteranno però i numeri (80 milioni di copie vendute fra album e singoli, il record di maggior affluenza a un concerto, stabilito durante l'esibizione "Oxygène in Moscow", alla quale assistettero circa 2.5 milioni di spettatori) e l'orgoglio di aver espugnato "la simbolica Bastiglia del conservatorismo musicale" (Alessandro Fantini, "Le 24 ore del cosmo"). E dopo anni di inspiegabile oblio, anche il virtuosista francese ritroverà il posto che gli spetta nel pantheon dei pionieri elettronici, forte anche di una rinnovata autorità morale su una nuova generazione di artisti (dagli Air ai Daft Punk, da Moby agli Autechre, passando per i recenti Fuck Buttons) che non mancherà di omaggiarlo.
16/05/2010