Sulla carriera dei Matmos credo si possa ragionevolmente obiettare ben poco. Mancava però forse, a conti fatti, la stramberia più sfacciata. A dire il vero molto sui generis lo sono stati sempre, sin dai tempi dell’osannatissima era-Idm, entro la cui cerchia anche loro possono essere all’incirca inscritti. Dico all’incirca perché si sono sempre ben guardati dal ricalcare cliché di genere. Oltre a ciò: l’esplosione, a cavallo tra Novanta e anni Zero, della popolarità del glitch ha visto i Matmos protagonisti di nicchia, sempre così poco impegnati a flirtare col pop unanimemente conosciuto, ma sempre pronti a gettarvisi a piene mani (leggi: Bjork che li vuole con lei).
E’ una storia strana la loro, che passa da dischi che non delineano evoluzioni sonore, ma si fanno (e si disfano) nella dimensione che costruiscono: field recording, musica che si rompe continuamente, schizzi di suoni, vetrate in frantumi e un senso della costruzione armonica del tutto peculiare. In tutto questo casino, “Ultimate Care II”, peraltro non diversamente dagli altri, non fa altro che fotografare in maniera nitida ciò che i Matmos sono. Questa volta, però, viste le modalità di realizzazione nonché la pasta sonora, mi pare di poter dire che questo album è un compendio chiarissimo e illuminante di cosa questo duo abbia fatto in questi 20 anni.
Si diceva, le stramberie. Beh “Ultimate Care II” altro non è che un modello di lavatrice. E Martin Schmidt e Drew Daniel da San Francisco hanno deciso di realizzare un disco i cui suoni sono totalmente generati (salvo poi ovviamente essere processati) da questa Whirpool. Facendosi anche aiutare da Rashad Becker al mastering, nonché coi contributi di Dan Deacon o Jason Willet degli Half Japanese. E insomma: un solo pezzo per poco meno di quaranta minuti di musica.
Vi pare di sentire una lavatrice? Magari a tratti, l’acqua che dai tubi risale in una sorta di risacca, il senso di vertigine. Di base però “Ultimate Care II” vive di sprazzi, di momenti, di istantanee. E’ un libro diviso in capitoli, senza un chiaro senso di dove finisca uno o inizi l’altro. Parte con rivoli d’acqua e tribalismi asciuttissimi, si evolve ninnananne non distanti dalla musica concreta, e poi ancora: krautismi in odore di minimal-techno, riscacqui e bass music a stecca.
Come in ogni loro album, l’ordine non c’è: sta all’ascoltatore trovarlo. E’ il solito caos organizzatissimo. Un viaggio senza punti fermi, spastico, del quale non si coglie il benché minimo orizzonte comune. Insinuano, indicano strade. E, dopo vent'anni anni, ribadiscono ancora di essere i migliori. Che, a conti fatti, è davvero l'unica incrollabile certezza.
14/03/2016