Sull’onda del quarto d’ora di celebrità conseguente all’uscita del debutto “Everything Else Matters” (2015), i giovani shoegazer di Pietroburgo Pinkshinyultrablast battono un chiodo ancora caldo con il seguito “Grandfeathered”. Il loro specifico artistico non è il massimo dell’originalità, e nondimeno è ancora tutto personale, ben distante da logiche discografiche di hype e new sensation.
“Initial” è emblematica non solo per il titolo ma anche per il suo gioco electro-techno, da cui potrebbe scaturire persino una seconda carriera. Il grosso dell’album è comunque dato da piccoli tour-de-force di vocalizzi femminili, distorsioni acute, contrappunti e ritmi contorti. Molti brani sono motivetti paradisiaci contesi e sballottati tra i loro consueti strappi rumoristici, laddove poi queste due dimensioni s’incontrano rafforzandosi a vicenda.
Così “I Catch You Napping”, “Comet Marbles” (con un canticchiare madrigalesco), “Kiddy Pool Dreams” (dallo spirito frenetico, se non punk, e un’ipnosi elettronica), trovano picchi ritmici e psichedelici nei controtempi quasi-samba di “The Cherry Pit” e della title track. La più avventurosa, almeno stilisticamente parlando, è comunque “Glow Vastly”, una chirurgia estetica tra prog-metal e noise-pop, sempre sostenuta dal loro incendiario ardore giovanile.
Un disco di distinte spremiture del verbo shoegaze, mosso da un’ossessiva ripetizione della medesima ricetta. Implica anche limiti che non soddisfano appieno, e soprattutto non incappano in un vero brano-guida; sufficiente, comunque, a crogiolarsi in un lago di miele a temperatura lavica. Autoprodotto, edito per l’ormai storica londinese Club AC30, e anche autodefinito (thunder-pop).
26/02/2016