La musica delle sfere potrebbe non avere un suono rassicurante o “celestiale” come noi, per tradizione, tendiamo a immaginarlo. In quel buio astrale e inconoscibile potrebbe risuonare un coro difforme e illogico come il “Lux Aeterna” di Ligeti: esso echeggia in maniera opprimente tra gli improvvisi fade-in di “4101” – forse l'incipit più debordante della “nuova elettronica” – riaprendo senza mezze misure il varco, l'ipotesi dell'orrido monolite kubrickiano.
Dal cyberpunk di “Aftertime” e dalla metropoli post-apocalittica del binomio Vex'd, le vedute di Roly Porter si erano già abbondantemente ampliate con il concept “Life Cycle Of A Massive Star”, emblematica sintesi delle traiettorie dark-ambient di casa Subtext. Col passaggio a Tri Angle la prospettiva si mantiene parimenti importante nel ragionare, in termini sonori, della terza legge newtoniana: l'esatta corrispondenza tra la forza esercitata da un corpo in risposta a quella di un altro ci parla, di fatto, dei contrasti naturali, delle regole che soggiacciono all'esistenza di qualunque elemento solido. Sulla granitica certezza di questi teoremi – fondamenti scientifici ad oggi inscalfibili – Porter sviluppa un piano d'azione libero che sembra voler sondare ciò che invece non è ancora noto, facendo consapevolmente un passo più lungo della gamba.
Metaforicamente, i profondi battiti digitali potrebbero simboleggiare la conoscenza e il progresso dei giorni nostri, mentre le scie acustiche a maglie larghe sottendono l'incomprensibile, i nodi ancora da sbrogliare di un sistema che definiamo “infinito” ma del quale forse non avremo mai l'esatta cognizione.
Elementi di realtà tangibile, come le lente arcate di un violoncello desolato (“In System”, “High Places”), si manifestano similmente a miraggi per esser subito reinghiottiti nell'oscurità astrale, illuminata soltanto dai minuti bagliori dei satelliti. Le voci disumanizzate, decostruite e alternate ai rimbombi in accelerazione di “Mass” ci proiettano in un'ipersfera sonora soffocante, espansa nei seguenti otto minuti di “Blind Blackening”, dove il senso di vuoto pneumatico e perdita dei sensi si fa ansiogeno.
Al di fuori di un contesto talmente indesiderabile nell'ottica della sopravvivenza umana, l'organo kosmische di “Departure Stage” e il synth che sigilla il finale di “Known Space” parrebbero cliché da colonna sonora sci-fi, laddove invece giungono a confortarci e a ripristinare l'ordine costituito, quelle antiche certezze sino a qui rimesse in discussione e sfidate a viso aperto.
Il bulbo oculare spalancato e la veduta color indaco che lo ricopre sono il riflesso di un horror astralis che non trova referenti nel linguaggio parlato: così l'intermittente carica drammatica di “Third Law” ci coglie ogni volta impreparati, tra visioni che solo una supercoscienza d'altri mondi potrebbe concepire. Un viaggio nel quale la temerarietà o la follia saranno la vostra unica salvezza.
01/02/2016