A mantenere intatto il filo rosso con gli esordi provvede la voce di Murray: anche se il disco è meno evanescente rispetto ai precedenti due lavori, forte di qualità pop e di una presenza scenica che in precedenza si riusciva soltanto a intuire, le interpretazioni della cantante si muovono ancora su quel soffuso e sottile crinale dream-pop in cui basta davvero un'inezia per compromettere l'intera riuscita del brano e sconfinare nei più noiosi stereotipi del genere. Qui vengono in soccorso la decisa sterzata synth-pop (immortalata a suo modo anche da una copertina che di suo pare volersi quasi infilare nell'attuale dibattito synth-wave) e una scrittura più (r)affinata a sottrarre le linee canore dalle troppe riprodotte con lo stampino in progetti più o meno simili, tuttavia anche la stessa interprete ci mette del suo per sfruttare nella minor misura possibile vocalizzi eterei e moine atmosferiche. Per l'appunto, però, è la stessa abilità compositiva del duo ad arginare il problema, o quando non è possibile a sfruttare certi stilemi nella maniera più funzionale possibile (quindi, come momento di stacco nel breve interludio di passaggio “Skimming”). Per il resto, gli Still Corners prestano fede al proprio cambiamento, comportandosi, anche se con qualche splendida sviata, come la pop-band che desiderano essere, giocando col ritmo, ritornelli e arrangiamenti come mai prima d'ora.
Già “Lost Boys” si fa partecipe delle nuove possibilità che si sono schiuse al duo: sintetizzatori in pompa magna, modulati con grande abilità e con raffinato gusto citazionista, melodismo attrezzato per affrontare con personalità un simile tappeto (notevole la scelta di strutturare il ritornello senza un particolare climax ad accompagnarlo, e renderlo comunque perfettamente funzionale al ruolo), contributi vocali perfetti per bilanciare la freddezza delle linee di synth mantenendo una certa palpabilità. Questa miscela, con le opportune modifiche, costituisce l'ossatura principale del lavoro. Non si tratta, però, di semplici variazioni sul tema: in “Currents” gli Still Corners danno la loro versione del funk tra staccato di chitarre e atmosfere più rilassate sulla scia dell'ultima Elly Jackson, “Down With Heaven And Hell” giustifica l'accostamento all'universo synth-wave piazzando il momento più cinematico e d'impatto del lavoro, “Downtown” tira fuori i maggiori paragoni col passato, mantenendo comunque un'allure pop e una consistenza melodica di cui pure due grandi brani come “Fireflies” o “Strange Pleasures” difettavano. E la storia non finisce qui.
Espandendo i confini della propria proposta, il duo ha infatti intercettato con successo traiettorie insolite che lo indirizzano verso peculiari commistioni folk (le fattezze gotiche di “The Fixer”, strumming di acustica sopra un battito al rallentatore e un efficace ostinato sintetico), gli consentono di estrarre dal cilindro la possibile carta midstream (“Bad Country”, gestita perfettamente nei tempi e con un vibrante crescendo emotivo), avanzano anche suggestive dinamiche sperimentali, torcendo il songwriting fino a costruire un ponte che li mette in contatto con un inedito lato ambient-pop (il dualismo espressivo di “Night Walk”, con suggestiva apertura abstract).
Senza sparare le migliori cartucce al primo colpo, con gli elementi stilistici ad affinarsi con il giusto passo uscita dopo uscita, gli Still Corners hanno fatto centro pieno al terzo colpo. Poco importa se di questi tempi sembra che il meglio debba essere dato al primo tentativo: anche se molti potrebbero voltare le spalle a una simile prova, “Dead Blue” giustifica pienamente le ambizioni e le capacità del duo.
(04/11/2016)