Si dice che prima di morire si riviva in un flashback tutta la nostra esistenza. Musicalmente parlando, chissà se era proprio questo che avevano in mente i Van Der Graaf Generator di Peter Hammill (chitarra, tastiere, voce), Hugh Banton (organo, basso, fisarmonica) e Guy Evans (battteria, percussioni) per il nuovo album. Con "Do Not Disturb", la storica band del progressive giunge, infatti, al suo tredicesimo tassello discografico, il quarto dopo la loro reinvenzione come trio iniziata con "Present" (2005), in cui però c'era ancora il sassofonista David Jackson.
Dopo quasi cinquant'anni di (onoratissima) carriera, la band guidata da Peter Hammill continua a esplorare l'hybris dell'esistenza umana, anche se il vero filo conduttore del disco è rappresentato dal riaffiorare dei ricordi, un susseguirsi di flashback dal passato che alludono inevitabilmente alla fine di un ciclo. In "Do Not Disturb" a trapelare, infatti, nelle musiche come nei testi, è la tentazione di appendere gli strumenti al chiodo e di affiggere al muro quel cartello "non disturbare" che ci separa dal mondo che ci circonda.
Nonostante la presenza di alcune sequenze piuttosto godibili, non si può negare che l'album, nel suo complesso, manchi di forza motrice. I ricordi non bastano; la stanchezza dei musicisti - giustificabile, peraltro, vista la carta d'identità - porta in dote una musica più affaticata e meno sicura del solito, malgrado la presenza più cospicua di segmenti turbolenti rispetto agli altri album post-reunion (merito, soprattutto, dell'uso massiccio della chitarra e della fisarmonica, che relegano spesso l'organo in secondo piano). È questo il caso della fosca cavatina di "Aloft", che prende l'abbrivio con accordi elettrici sospesi e percussioni appena accennate, prima di mutare la sua pelle come nelle migliori delle tradizioni prog. L'istrionico Hammill ci guida attraverso questo repentino cambiamento in una traccia che, come molte delle seguenti, ha tutto l'aspetto di una mini-suite, un collage sonoro di stati d'animo antitetici.
Nello scorrere dei ricordi non poteva mancare neanche una tappa in Italia. Nella nostra penisola, infatti, i Van Der Graaf Generator hanno goduto negli anni Settanta di un grande successo di pubblico e critica, arrivando a toccare le vette delle classifiche con "Pawn Hearts" (1972). In "Alfa Berlina", la band ricorda con affetto i viaggi assieme al loro manager italiano, Maurizio Salvadori, che scarrozzava i musicisti durante le tournée guidando spesso in modo spericolato. Sono proprio i rumori tipici del traffico ad aprire la traccia, la cui aura nostalgica viene poi evocata dall'organo di Banton e nelle malinconiche parole di Hammill ("I've got a lifetimes library of unreliable mementos/ and I could show you one or two"), il cui canto insolitamente spensierato, in memoria della libertà giovanile, viene contrappuntato da un ritmo sontuoso e imponente.
Uno dei pilastri della carriera dei Van Der Graaf Generator è sempre stata la passione di Hammill per le storie tetre ed esistenziali; troviamo così anche una vignetta solitaria di una stanza d'albergo, che sul finale inizia ad assumere connotati orrorifici ("Room 1210"). In misura maggiore rispetto agli album precedenti, il trio cerca di sopperire alla mancanza di David Jackson, anche grazie all'inedito lavoro di Hugh Banton con la fisarmonica. L'atmosfera generale, talvolta, si avvicina così agli album anni Ottanta di Hammill, come in "Forever Falling", "Shikata Ga Nai" (giapponese per "non c'è niente da fare") e, in misura maggiore, in "(Oh No, I Must Have Said) Yes", che sembra quasi una caricatura grottesca del progressive stesso, con un riff ledzeppeliniano che prende la strada del jazz-fusion verso la metà. In "Brought To Book" e nel suo docile prosieguo di "Almost The Words" è invece stranamente quasi lo spirito gentile di Richard Wright a emergere, diffondendosi in qualche modo negli intrecci tra le tastiere e la chitarra.
Quando il sipario infine si chiude, vi è un profondo incupimento dell'umore. Il tono di Hammill di stanca rassegnazione incombe sopra all'organo sacrale di Banton, mentre le ultime parole del testo ("more or less, all for the best/ in the end it's all behind you/ there's the thing for all you know/ it's time to let go") scrivono - in matita - una dolce epigrafe alla leggenda dei Van Der Graaf Generator.
05/10/2016