Una voce, potente e immaginifica, un paio di strumenti a percussione, e una loop station: con rarissime eccezioni, non serve altro ad Adele Pappalardo (meglio nota con la sola H maiuscola al posto del cognome, in onore al personaggio di Truffaut) per costruire il suo affascinante universo sonoro e irretire chiunque voglia perdersi tra le trame di un racconto musicale dall'impronta fuori da ogni contingenza, da ogni possibile collegamento con l'attualità. Titolo, testi e a suo modo anche la stessa copertina raccontano di quest'esigenza di evasione, di un desiderio di disconnessione dal mondo circostante, alla riscoperta di un'umanità più diretta, priva dei filtri accumulatisi nel corso dei millenni di civiltà che hanno accompagnato l'evoluzione della nostra specie. La magia sprigionata dalla musica dell'artista italiana punta insomma alle forme più primordiali e arcane dell'espressione umana, per quanto trasmesse anche attraverso l'utilizzo della lingua inglese, in un parterre di composizioni che esaltano il carattere ancestrale e la potenza primigenia ricercata dall'autrice. Nei suoi trentacinque minuti scarsi di durata, quello illustrato da “Civilization” è un viaggio che vale la pena compiere.
Costituito da un ciclo di composizioni che premia la ripetizione strutturale (talvolta fin troppo insistita) e le suadenti sfumature espressive della vocalità di Adele H, il primo full-length della musicista (anticipato da un Ep pochi mesi addietro che si è avvalso anche della collaborazione del marito Buck Curran), pur evidenziando qualche affinità sonora con la fittissima carovana che negli anni 00 sconquassava i circuiti indipendenti al nome di New Weird America (il richiamo diventa fortissimo in “Sun Walker”, dove l'evocativo contributo di flauto avvicina il brano alle indagini trascendenti di Fursaxa), se ne discosta per un approccio concettuale totalmente diverso. In particolare, quanto si evince in “Civilization” porta la creatività dell'autrice ancora più indietro, alla volta di epoche antiche di cui non si ha alcuna testimonianza musicale, facendola procedere allo stesso tempo in parallelo rispetto all'euforia mistica dei colleghi di un decennio fa. Per quanto spesso strutturate come un mantra, con la sola voce a svolgere il doppio compito di supporto e linea principale (sfociando nei momenti più distintivi della collezione, come ad esempio la suadente “Back To The Trees”, oppure la psichedelia onirica di “I Wish I Was”, irrobustita dalle armonizzazioni più convincenti del lotto), le canzoni del lavoro sono frutto di una concretezza programmatica che vede nell'evasione non tanto un tentativo di collegamento col divino, quanto una forma di protesta rispetto alla contemporaneità, una sorta di alternativa rispetto a sovrastrutture che deprimono il potenziale reale dell'umanità.
In questo sguardo a un antico (coincidente comunque anche con un eventuale presente altro) ricostruito con la forza dell'immaginazione, “Civilization” non suona comunque come un prodotto figlio di uno scatto di rabbia: l'avvicinamento al buddhismo da parte della musicista ha sviluppato in lei una forma più sottile e profonda di critica, una resistenza ai condizionamenti circostanti che si riverbera con decisione nelle trame del disco. Anche nei momenti di maggiore concitazione, laddove il contributo percussivo si fa più pronunciato (come nella già nota “Dogmas”, ma anche nell'intrigante “Primordial Sound”, che tiene fede al suo titolo costruendo una sorta di folk della notte dei tempi), vi è infusa una serenità, una pacificazione che rifugge il caos della società contemporanea e ne travalica le posizioni più deleterie, in un ribaltamento di prospettiva pressoché totale.
In questa coralità dei primordi, Adele Pappalardo ha insomma trovato una cornice espressiva preferenziale, un viatico artistico in cui far rispecchiare al meglio la propria ricchezza di spirito. Nonostante una formula sonora fieramente limitata, quanto si ascolta in “Civilization” permette di ipotizzare belle evoluzioni per i prossimi progetti della musicista italiana.
01/06/2017