Introdotta da un quanto mai inatteso minimalismo da camera ("Birdland"), la raccolta è stata scritta e prodotta dal frontman - coadiuvato in sede di registrazioni dal chitarrista dei Blind Melon Christopher Thorn e dal marito di Ani DiFranco, Mike Napolitano - tra New Orleans, Memphis, Los Angeles e Joshua Tree, alla testa di una squadra di cui fanno parte anche il veterano John Curley al basso, Patrick Keeler dei Raconteurs alla batteria e Petra Haden e Rick Nelson dei Polyphonic Spree agli archi.
La meccanicità delle ritmiche di "Arabian Heights" non pregiudica la galoppante e persino leonina autenticità del gruppo, pur imprimendosi con un impulso forse troppo coercitivo sugli altri dettagli in tavola. In linea con il nuovo corso, la voce del capobanda sceglie di non nascondere il proprio arrancante regime attuale e non si tratta certo di una sorpresa, "Do To The Beast" lo diceva già chiaramente, ma tornare a fare i conti con questa realtà comporta una nuova faticosa accettazione da parte di chi abbia amato alla follia i classici della band di Cincinnati e si ritrovi spiazzato una volta di più. Certo, quando Dulli si astiene dal forzare e giostra sul velluto del proprio inconfondibile rock a tinte noir, nel magnifico singolo "Demon In Profile" più che nella didascalica "I Got Lost", il gruppo ha ancora buon gioco a incantare grazie all'elegante carattere di un tempo. Altri passaggi, ancorché pasticciati ed evidentemente inclini allo squilibrio di forze ("Toy Automatic"), riescono non meno fascinosi, pur risparmiandosi adulterazioni di sorta e lasciando che il cantato sensuale di Greg si lasci sommergere dagli spunti elettrici e dal riverbero.
Gli Afghan Whigs non hanno sconfessato la loro indole musicale viziosa, la consistenza in fondo corporea di un sound al solito superbamente levigato, e c'è da scommettere che con un'interpretazione vocale meno forzosamente ridotta all'evanescenza potrebbero ancora dire la loro con autorevolezza, in seno a una scena alternative onestamente non proprio al suo massimo splendore. Tocca accontentarsi di quanto passa il convento nella consapevolezza che la classe, almeno lei, non evapora così da un giorno all'altro. Senza azzardare soluzioni più estrose o eccentriche, i ragazzi dell'Ohio insistono con il cifrario di riferimento, tra il languido e lo scorbutico, dei dischi della maturità, al netto degli scompensi e delle tentazioni manieriste che qua e là - in "1965", ad esempio - avevano iniziato a far capolino. L'inflessione tende sempre al gagliardo, la facciata appare sottilmente rimodernata (evitando però sconvolgimenti strutturali) e la scrittura, soprattutto, si conferma la più solida delle garanzie a disposizione.
Se non c'è traccia dell'effettistica speciale a mo' di trucco, è a maggior ragione vero che non si potranno ravvisare inganni. Le due chitarre a marchio registrato e il piglio vagamente luciferino di Dulli in "Light As A Feather", i fiati tossici che suggellano l'ebbra "The Spell", valgono in via esclusiva come gettoni da spendere in chiave fidelizzante, una prospettiva, questa, secondo la quale "In Spades" lavora al meglio delle proprie possibilità. Dulli ci mette del suo lavorando talvolta di compensazione, servendosi di una maschera anche più enfatica di quelle che gli ricordavamo. L'umanità suggerita dalla finitezza, la natura manchevole, la fragilità della sua prova pure così ostinata rappresentano il massimo motivo di interesse per questa piacevole quanto inattuale sortita, direttamente dal fumoso passato di una band che proprio non vuole saperne di gettare la spugna.
(05/05/2017)