Comunque uno la pensi sulla musica di Alex Giannascoli, la sua carriera rimane oggi un esempio di come si può, con veramente poco se non le proprie idee, arrivare dalla "cassettina" su Bandcamp a un contratto con la Domino, e a una stampa ai propri piedi. "Rocket" è il sesto, settimo, insomma l'ennesimo disco pubblicato da Alex, dopo la svolta data dallo scorso "DSU", il primo ad avere attirato una qualche risonanza presso il pubblico, e una distribuzione altrettanto cospicua.
"Rocket" sembra un po' l'occasione per smarcarsi dall'etichetta di Elliott Smith formato Bandcamp che sembrava affliggerlo finora, presentandolo come compositore da cameretta a tutto tondo, tanto in grado di riproporre il marchio di fabbrica del suo folk-rock lo-fi e slabbrato che suona tanto come una versione solipsistica delle band del Pacific Northwest dei primi Duemila (Norfolk & Western, Carissa's Wierd), che buttarsi su numeri pop jazzati che potrebbero venire dai Grizzly Bear ("Guilty"), così come su brani atmosferici (lo psych-folk gotico di "Witch", alla Timber Timbre). Ma anche un pop-lounge che potrebbe venire da Jack Tatum o da Martin Courtney ("County"), e, perché no?, un brano di college-Americana ("Bobby").
Non si sarebbe neanche finito di enumerare tutte le nuance di arrangiamento che si possono trovare in "Rocket", e che parlano di una rinnovata fiducia nei propri mezzi di Alex, ma insomma si può intuire quale contenitore di memorabilia (c'è anche l'hardcore in "Brick") sia questo album, che assomiglia probabilmente alla stanza di un post-adolescente americano di grande talento, piena di oggetti e immagini in stato di perenne catalogazione.
In tutto questo resiste soprattutto la nitidezza di un ritratto esistenziale ancora prima che autoriale, che però, in assenza di una scrittura che non è mai stata un punto di forza di Alex, rimane soprattutto fonte di solletico intellettuale e non molto altro.
27/05/2017