Si era interrotto cinque anni fa il percorso musicale tracciato nel 2007 da Rob Lowe e Michael Muller con i Balmorhea. Difficilmente etichettabili, spesso inseriti superficialmente all’interno dell’immenso calderone post-rock, continuano a muoversi con la loro musica tra i binari minimal di un rock da camera che fa della sottrazione uno dei suoi elementi principali. Certamente post da tutti i punti di vista, che sia rock o meno poco importa, i texani si librano in quel piano continuo che unisce la (post) modern classical e gli esperimenti post-rock dei Bark Psychosis di “Hex”.
La pulizia dei suoni - come si evince dal titolo stesso - emerge prepotentemente e rappresenta quasi una sorta di manifesto contro il caos dei mille rumori e delle mille voci urlate della società contemporanea. Lasciata alle spalle ogni tensione, il nuovo “Clear Language” si muove tra sintetizzatore, pianoforte, vibrafono, archi e chitarra con un ancor più scarnificato approccio minimal capace - anche per questo - di pennellare paesaggi onirici tramite brevi loop di synth e strumentazione acustica.
La prima traccia “Clear Language” nasce proprio così, da un loop minimalista di synth e piano a seguire. La semplicità e la leggerezza sono gli elementi principali e - allo stesso tempo la forza - di un sound tanto personale e caratteristico. Pulsazioni di vibrafono e ritmi di batteria di "Sky Could Undress" rimandano a scenari in stile Mogwai ma molto semplificati. Quando si inseriscono gli arpeggi di chitarra il mood non cambia, anzi viene accentuato l’aspetto intimo e crepuscolare (“Slow Stone”, “55”, “First Light”). “Ecco” e “Behind The World” accentuano la componente elettronica che resta sempre al servizio di una rigorosa opera di sottrazione.
I Balmorhea si confermano capaci di ricreare sonorità di fascino e semplicità. Né rabbia né spigolosità: il loro viaggio è estraniazione, sogni a occhi aperti, unico modo di fuga da una realtà che ci sovrasta quotidianamente con il suo caos.
08/11/2017