Sono passati quasi quindici anni dal primo, brusco cambio di rotta del duo londinese e non ci si dovrebbe più stupire, quindi, dell'ormai conclamata schizofrenia stilistica dei Goldfrapp. Che il nuovo album potesse segnare un ritorno alle sonorità abrasive ed electro-clash proprie di quel controverso "Black Cherry" (che divise i loro primi ammiratori) lo si era in fondo intuito sin dall'ascolto del non troppo appariscente singolo "Anymore". Eppure affascina e suscita persino ammirazione il modo in cui i due impediscono al loro pubblico di crogiolarsi con una proposta sempre sicura e confortevole, pungolandolo a ogni nuova pubblicazione, incuranti del riscontro e delle immancabili delusioni.
Perdete ogni speranza, o voi che cercate ariosi panorami montani, bucoliche poesie acustiche o suggestioni morriconiane. Provate al massimo a trovare rifugio nell'algida malia della notevole "Moon In Your Mouth" e nella spettrale "Faux Suede Drifter" o a farvi rapire dal tenue tribalismo di "Tigerman" e "Beast That Never Was". Perché il cuore di "Silver Eye" è claustrofobico e debordante di stratificazioni industrial, complice anche il contributo di The Haxan Cloack (alla seconda collaborazione prestigiosa dopo quella con Bjork) in brani come la tetra "Zodiac Black" e la passivo-aggressiva "Ocean", tra i loro pezzi migliori.
Anche stavolta Alison Goldfrapp riduce al minimo i cristallini vocalizzi per indugiare su un registro sussurrato (e filtrato) alle prese con melodie talvolta fin troppo impalpabili, spesso affogate dalla roboante produzione in maniera non dissimile dagli ultimi Depeche Mode. Per la prima volta nella loro carriera sembra quasi che Will Gregory abbia voluto porre freno all'ingombrante collega e non puntare sulla di lei vocalità ed esuberanza quali elementi principali della nuova proposta.
Soltanto in una manciata di episodi i due cercano di alleggerire i toni e di ritrovare quella vena pop che accompagnava i loro lavori più elettronici. Ci riescono vagamente, senza però intaccare la cupezza di fondo o scadere nel kitsch di "Head First", con una non irrinunciabile "Become The One" e, soprattutto, con la spedita "Everything Is Never Enough". Soltanto "Systemagic" però, con le sue fascinazioni anni 80 à-la "Pop Muzik", sembra possedere il giusto appeal per solleticare davvero la fantasia di pubblicitari e stilisti.
In passato Goldfrapp e Gregory sono stati spesso accusati di covare mire commerciali ogniqualvolta si addentravano in territori più electro, ma l'austerità con cui hanno permeato questo "Silver Eye" (in maniera non troppo distante da "Tales Of Us", che ne diventa quasi l'acustica controparte) è una secca smentita. Stavolta hanno solo avuto voglia di aggiungere nuovi, oscuri colori al loro sempre mutevole affresco.
02/04/2017