I Last Leaves non comprendono in realtà Tali White, impegnato con la sua band, The Guild League, ma sono composti dagli altri tre quarti della storica band di Melbourne.
"Other Towns Than Ours" è una perfetta collezione artigianale di tutto il migliore guitar-pop dei Lucksmiths, forse anche con una produzione e un'esecuzione un po' più ruvida e "rock", rispetto almeno alle uscite post-Duemila della band di provenienza. Il disinvolto arrangiamento, pieno di riff e con una sezione ritmica in evidenza, del power-pop di "Other Rivers" mostra subito una freschezza, che viene dall'ispirazione della scrittura, che fa ormai rimanere senza parole.
Si tratta di un sound giovanile, in cui forse conta l'apporto del produttore Gareth Parton (The Go! Team, Foals), ma che appunto la qualità della scrittura protegge da una deriva giovanilista. È un sound che ci si aspetterebbe da una band all'esordio - e in effetti lo è, a ben vedere - ma anche le canzoni sono da esordienti, nel migliore possibile dei significati. È l'orgoglio prorompente del suonare la "propria" musica che propelle lo spirito rombante, da "Grand Prix", di "The World We Had"; "The Hinterland" la vorremmo sentire in qualsiasi esordio della prossima band emo-pop di Athens, col suo rutilante ritmo "staccato"; vorremmo tutti che "Thin Air" fosse la prossima hit della Band Of Horses, col suo headbanging rurale, frammisto alla malinconia dello spaesamento; che "Third Thoughts" fosse l'inizio di un grande revival britpop.
Eppure quello che emerge da "Other Towns Than Ours" è che solo loro avrebbero potuto scrivere questo disco, e nessun altro lo scriverà. E nessuno l'ha mai scritto prima, a parte loro stessi, ovviamente. E dopo aver sentito, a volume adeguato (l'album è prodotto forse più per dei bei diffusori che per le cuffie), il disco, non rimarrà che fare un brindisi, a tutti coloro che riescono a rimanere giovani, nonostante quello che dice la carta d'identità. Questo album è non solo la prova della loro esistenza, ma "il" manifesto antropologico.
(30/10/2017)