Elevare l'autenticità a indiscutibile vessillo di purezza e di massima virtù ci può stare. "Restano, forse, i libri, i concerti, le lotte di strada, l'amore, i luoghi in cui davvero sei solo, in cui davvero sei con qualcuno, il resto è inferno a fuoco lento", dice Lodo Guenzi in "Sessanta Milioni di Partiti", incipit del nuovo album de Lo Stato Sociale e manifesto della diversità che conforma. "Alla fine meglio essere liberi che furbi, sprovveduti che intelligenti, vivi che vissuti, sbagliati che incompiuti", si legge in "Quasi liberi", che concettualmente sembra una propaggine della traccia citata appena sopra.
"Amore, lavoro e altri miti da sfatare" è un album che ti porta a ragionare sul tema dell'autenticità, da subito e con ridondanza. Il passaggio logico successivo, fisiologicamente, è considerare il concetto stesso dell'autenticità in relazione al disco su cui si stanno concentrando tutte le proprie attenzioni; l'effetto di questo cogitare, per chi scrive, è stato quello di ripescare, in qualche pertugio recondito della memoria, quell'apparecchio meccanico visto un giorno a Firenze, che viene da molti considerato come la rappresentazione efficace della nozione di "paradosso". La differenza è che in quel caso il paradosso era solo apparente.
Con i testi e la produzione del nuovo disco, Lo Stato Sociale fa quello che si definirebbe "predicar bene e razzolare male". Il Paradosso Bolognese sta nel rifulgere la mediocrità del costruito, del fare perché va fatto e, contestualmente, incartare un lavoro che nel suono ha il sapore di qualunque cosa e dunque di niente in particolare, come un panino comprato da Subway: indefinito, multiforme, spaesante. "Nasci rockstar, muori giudice ad un talent show" è figlia illegittima di un album dei Marta Sui Tubi; "Vorrei essere una canzone" - palesemente costruita su una frase che Eddie Vedder biascicò nel lontano '98, alla fine di "Wishlist" e che, almeno, ha il merito di essere accompagnata da un videoclip caricaturale e divertente - è una traccia segreta del Francesco Baccini meno ispirato. "Amarsi male" ha un ritornello appiccicoso e radiofonico - che nella musica popolare non sarebbe neanche un vizio, semmai una virtù - ma soltanto questo, perché da offrire non ha nulla di più, così come "Buona sfortuna", una filastrocca sulla sfiga che raccoglie e rielabora, in chiave amorosa, quello che Alex Drastico aveva seminato negli anni Novanta, dopo che qualcuno si arrogò il diritto di rubargli il suo (!!) motorino.
Difficile dire se canzoni pungenti, intelligenti e stimolanti come "Sono così indie" o "Ladro di cuori col bruco" fossero più lampi ultronei di piccolo genio - i quali perlomeno si ha avuto il merito di saper cavalcare - che risultati di una capacità di scrittura realmente in possesso, ma queste ultime dieci canzoni fanno propendere per la prima ipotesi. Facciamo pure nove, perché come nel male c'è un pizzico di bene e nel bene un pizzico di male, anche qui c'è un episodio che combatte strenuamente per non farsi dimenticare. Si tratta di una missiva onirica destinata a non essere mai spedita e che nel titolo recita "Niente di speciale". Quant'è fastidiosa, talvolta, l'ironia della sorte. Sia dato a Cesare quel che è di Cesare.
18/03/2017