Bob Wilson & The Brown Eyes provengono da Dunlap, poco più di mille abitanti incastonati da qualche parte nella contea di Harrison, Iowa. Un posto in cui non c’è praticamente un cazzo da fare. Se non vuoi trasformarti nel solito americano medio, hai due possibilità: o prendi il primo autobus e scappi via, oppure ti metti a suonare uno strumento, magari cercando altri tuoi simili con cui condividere insane passioni soniche. Deve essere accaduto proprio questo a Bob Wilson. Anzi, è andata così. Senza dubbio. Perché, raccontano i ben informati, da ragazzo il Nostro non fece altro che suonare in diverse cover band insieme ad altri eroici personaggi che bazzicavano nei paraggi. I loro nomi? Bruce Bradberg, Johnny "Joey" Atherton, Will Stanford e Jim Crowe. Poi, una volta messa su famiglia, tutto andò a farsi benedire. Fino a qualche annetto fa, quando i cinque si sono ritrovati e hanno deciso di scatenare l’inferno contro la musica che i figli andavano ascoltando a ripetizione nelle loro camerette, nonostante i loro avvertimenti sulla – testualmente – “musica di merda”.
Si diceva, però, dell’inferno: che è nome appropriato per mettere a fuoco (ops!) questo “Ain't Like It Used To Be”, disco che la stragrande maggioranza degli ascoltatori di musica del nostro pianeta catalogherebbe immediatamente sotto il genere “merda”, il che, sia detto senza polemica, per molti di voi è già un buon motivo per correre a casa, mettervi le cuffie e rintracciare queste undici tracce. Perché, nonostante tutto, la creatività, il gusto per il "diverso" e per ciò che non risponde ai soliti, stantii canoni della "bellezza" in musica, ha ancora qualche valore.
Ma che musica suonano esattamente Bob Wilson & The Brown Eyes? Direi un lo-fi garage-noise ultra-primitivista (per la cronaca, il disco è stato registrato nel seminterrato della casa di Bruce Bradberg), che sa trasformarsi in chiassosa marcia bandistica (“My Time”), in psichedelico calvario a margine della devastazione (“The Long Road”, un brano che non avrebbe sfigurato in “So Happy Together”, il capolavoro dei Grifters) o in stordente frullatore di Pussy Galore, Harry Pussy, Honeymoon Killers e via (marciume sonico) discorrendo (“King Of The Hill”). Quello di “Hey” è, invece, una scheggia punk-hardcore remixata da un esagitato che ha da poco scoperto “Twin Infinitives” dei Royal Trux e non sa come più come uscirne.
E se l’incubo folk di “Seven A.M. Wake Up” potrebbe essere scambiato per una gemma dimenticata della Nurse With Wound list, i miraggi hawaiani e il senso di svacco che si respirano in “It’s The 70s” fanno venire in mente una lounge-music in decomposizione. Con le due take di “She's Lookin' Cute” si materializzano, invece, i Chrome alle prese con un hard-rock che prova anche a essere piacione, ma finisce solo per diventare sempre più scostante e destrutturato. In “The Holy Moment”, il quintetto si cimenta addirittura con soffici radure di muzak elettronica, insomma quella roba che il James Ferraro di “Far Side Virtual” apprezzerebbe con sorriso beota.
Quando, poi, questi scalmanati decidono di operare senza anestesia sul corpo di “Hotel California” degli Eagles, il risultato è una “Should've Played For The Eagles” che solo un'emittente radiofonica (pirata, naturalmente) di Marte si azzarderebbe a trasmettere. Stesso discorso per la manomissione funky-groove di “Light My Fire” dei Doors, ultimo sberleffo di uno degli album più folli, divertenti e geniali del 2018.
03/01/2019