In un’altra vita ingegnere civile in Colombia, Lucrecia Dalt si riloca in quel di Berlino per iniziare seriamente la sua sperimentazione elettronica dopo un primo timido “Acerca” (2005). Attraverso “Congost” (2009) è scoperta dalla Human Ear Music di Jason Grier, e da qui inizia la carriera maggiore: “Commotus” (2013), “Syzygy” (2013) e l’opus magnum “Ou” (2015). Dalt esplora le zone d’ombra delle tecniche automatiche della produzione digitale, così come gli anfratti stilistici tralasciati da alcuni padrini. Delle pietre scartate da costruttori come Terry Riley, Residents, Suicide, Laurie Anderson, Laika e in qualche modo anche i ciechi pattern dei primi Swans, Dalt ne fa altrettante testate d’angolo.
“Anticlines” allarga e chiarisce, tripartendole, le sue potenzialità. Anzitutto ci sono i monologhi, sostenuti da un reticolo di baluginii elettroacustici tanto cadenzati quanto informi (“Edge”, prodezza d’implosione), oppure narcotici soul alla Sade, forti d’inflessioni androidi e sensualmente incastonati in battiti caraibici-industriali (“Tar”), d’impulsi elettronici assordanti (“Analogue Mountains”), oppure, uguali e contrari, mantra fatti di miasmi e percussioni ribattute (“Errors Of Skin”). In mezzo vengono interludi misteriosi di danza, da “Atmospheres Touch”, balletto digitale per ectoplasmi in mutazione, a “Axis Excess”, quasi kabuki ma sfaldato da radiazioni.
Ultimi ma non ultimi sono i microscopici poemetti spaziali: “Altra”, “Helio Tanz”, “Liminalidad”, “Eclipsed Subject”, “Antiform”. Per quanto fascinosi e, di nuovo, arcani, questi bozzetti hanno una funzione simbolica, quella di smaterializzare, sgretolare la già effimera presenza umana della compositrice. Si propongono esponenzialmente, insistendo quanto più ci si approssima alla fine dell’opera, intervallano una voce umana fantasmagorica, la inglobano e la ritrasmettono come parte indistinguibile della macchina. Dalt ottiene così recitativi sempre più ascetici (cioè robotici), al limite del palpito o del gestualismo: “Concentric Nothings”, e poi “Glass Brain”.
Confuso, frammentato, forse inconsapevole, anche se solo in apparenza. Questo piccolo trip verso l’antimateria (e l’antiumanità) ricolmo di ritmiche olografiche, di esotismo sudamericano subliminale, ha comunque i suoi limiti. Checché ne dica l’autrice (“This Is Not Background Music”) talvolta scivola verso l’intellettualismo naif. Per quanto imperfetta e provvisoria, la natura fosca di questi sfocati crittogrammi senza etichette, letti anche con Dylan Trigg (“The Thing”), Alice Fulton (“Cascade Experiment”) e Hito Steyerl (“Wretched Of The Screen”), permane nella memoria attiva quanto un’incisione. Le edizioni fisiche, cd e vinile, non valgono; solo nel download digitale Dalt piazza il finale apocalittico mancante, in qualità di bonus track: “Shergotite Rain”.
27/05/2018