Se gettassimo un sassolino in quel pozzo senza fondo che è la musica africana esportata in Occidente sentiremmo rimbombare due macrocategorie di artisti: la prima è quella degli "ambasciatori", eroi nazionali che divulgano le proprie tradizioni a orecchie straniere (Babatunde Olatunji per la Nigeria, Toumani Diabaté per il Mali, Miriam Makeba per il Sudafrica, allargando le maglie anche Youssou N'Dour per il Senegal); la seconda è quella dei "contaminatori", creatori di nuovi linguaggi etnicizzando quelli dei colonizzatori (l'afrobeat di Fela Kuti, il blues desertico di Ali Farka Touré, il world-jazz di Hugh Masekela e Manu Dibango, l'electro-funk di William Onyeabor). Prerogativa di pochi giganti è riuscire a essere ambedue le cose: ai nostri occhi Mulatu Astatke è l'Etiopia, oltre che l'indiscusso negus di quella meraviglia di convivenza pacifica che è stato ed è l'Ethio-jazz.
Grazie all'esimia Strut, label britannica specializzata in ristampe di area africana, a cinquantadue anni dalla pubblicazione tornano le primissime incisioni newyorkesi di questo gentleman sornione, raccolte nei due volumi di "Afro-Latin Soul". Il titolo dice molto, ma non tutto: se il "latin" senz'altro deborda, di "afro" in questi solchi ne troviamo invece pochino (fatta eccezione per gli esperimenti percussivi su "Shagu" e "Almaz" o i titoli suggestivi di episodi come "Karayu" e l'esplicita, fiera "Girl From Addis Ababa", futuro cavallo di battaglia). Non fosse per un vibrafono già a briglia sciolta ("Mascaram Setaba"), è la fotografia di un musicista ancora acerbo, innamorato del latin jazz che impazzava in città (Mulatu all'epoca studiava al prestigioso Berklee College Of Music di Boston e fuggiva nella Grande Mela durante i weekend), lontano dallo stile che lo renderà celebre nel decennio successivo, anche grazie alla sponsorizzazione dell'amico Duke Ellington.
Spadroneggia un piano caraibico che fa molto exotica, qua più notturno e jazzato ("Alone In The Crowd", "A Kiss Before Dawn"), là vagamente rock'n'roll (il boogaloo di "The Panther"), con un solo brano cantato ("I Faram Gami I Faram", canto di guerra etiope adattato in spagnolo, coraggioso tentativo di creare un ponte tra i due mondi) e qualche effetto sonoro da giungla idealizzata a far capolino ogni tanto. Un'incisione scadente e un mix opaco penalizzano ulteriormente un lavoro che avremmo trascurato senza quel nome in copertina, tuttavia importante nel percorso da lì a poco in ascesa del glorioso leone baffuto.
Per i cacciatori di oddities discografiche va segnalato che il primo volume fu contrabbandato in Italia dalla mitica CDI di Pier Quinto Cariaggi con due strambissime edizioni: la prima (1966) intitolata "Pop Art" e attribuita a un fantomatico Jonny "Paciuga" Farmer And His Quintett, con i titoli dei brani inventati di sana pianta e una bellissima copertina optical; la seconda (1968) laconicamente rinominata "Le Allucinazioni", con le tracce imbottite di effetti psichedelici e una sensazionalistica guida all'ascolto acclusa ("Un documento formidabile: la registrazione vera del viaggio LSD", garantisce la sobria réclame da Mondo Movie). Nel sottobosco collezionistico viaggiano su cifre a più zeri.
Tributo al Sudamerica di un africano di stanza negli Usa, "Afro-Latin Soul" rimarrà come curiosa opera di fusion transnazionale, un atto di pan-terzomondismo in piena decolonizzazione che, almeno sotto quel profilo, ha ancora qualcosa da insegnarci.
06/10/2018