Quando nella seconda metà degli anni Settanta il visionario produttore Ricardo Pachón mise mano a una serie di dischi epocali, in pochi fra gli amanti del flamenco capirono cosa stesse davvero accadendo. Prima con “Nuevo día” di Lola y Manuel (1975), poi con l’album omonimo dei Veneno (1977), infine con “La leyenda del tiempo” di Camarón de la Isla (1979).
I dischi si rivelarono tre fiaschi a livello commerciale, e i pochi che li acquistarono ne rimasero perlopiù oltraggiati, fino a pretendere il rimborso dai negozi. Bastò tuttavia far passare pochi anni affinché la loro eco generasse i meritati frutti, finendo con l’influenzare profondamente le successive generazioni di musicisti del settore. “La leyenda del tiempo” ha poi addirittura travalicato lo steccato degli appassionati, diventando uno dei dischi flamenco più famosi di sempre, con la title track e “Volando voy” oggi note a qualunque abitante del Regno di Spagna, e coverizzate di continuo. Non male, per un album che all’epoca vendette a stento diecimila copie.
Cosa venne percepito da chi impattò in diretta con quei dischi? Probabilmente un insulto alla purezza del flamenco, un oltraggio a una tradizione secolare che si reggeva su regole ben precise. L’inserimento di strumenti elettrici e la contaminazione con la musica rock suggerirono probabilmente un imbarbarimento, un chinare il capo innanzi all’invasione culturale angloamericana, svilendo così le proprie radici. È buffo che sia quasi sempre il contesto a generare questa sorta di equivoci: in quella stessa Spagna e in quello stesso periodo, una band andalusa di nome Triana andava pubblicando con successo dischi in cui mescolava
rock progressivo e flamenco, senza che nessuno battesse ciglio. Il pubblico era però quello più giovane, che stava crescendo con la musica rock, e assorbì pertanto quell’ibridazione in maniera del tutto naturale. Ben più ardua l’impresa di Camarón e compagni: convincere gli integralisti del flamenco che il rinnovamento sarebbe stata l’unica strada per evitare l’oblio.
Questa introduzione, pur non indispensabile, è utile per chi fosse all’asciutto di una materia quasi mai trattata dalla critica musicale italiana, quale appunto il flamenco. L’album a cui è intestata la recensione, quinto di Niño de Elche come solista, è un’opera talmente estrema che approcciarvisi senza avere idea dello scenario in cui va a incastonarsi e dei significati che si porta dietro, potrebbe generare più di un interrogativo.
Messa in piedi con l’appoggio del fidato produttore Raül Refree, “Antología del cante flamenco heterodoxo” rappresenta per la scena spagnola del 2018 quello che i dischi di cui sopra rappresentarono alla fine degli anni Settanta. La rottura degli schemi, la fusione con elementi estranei alla cultura gitana e iberica, l’imbastardimento che cerca di creare a sua volta un canone.
Certo, Francisco Contreras Molina (vero nome del Niño) si muove in un ambiente molto più favorevole a livello intellettuale. I suoi dischi ricevono recensioni eccellenti, El País stravede per il suo operato, viene invitato persino in tv a presentare brani tutt’altro che di facile ascolto. Tuttavia, se la caccia alle streghe è soltanto un ricordo, ciò non toglie che il grande pubblico non sia pronto per assorbire un’opera così radicale, che sta infatti rimanendo ad appannaggio esclusivo degli addetti ai lavori. Se un’eventuale influenza sui colleghi sarà misurabile soltanto fra qualche anno, sono invece tutti concordi sul fatto che una nuova porta sia stata aperta.
Due cd, ventisette brani, e un’ora e tre quarti di musica, dove al flamenco accade tutto e il contrario di tutto. Viene sommerso da droni di organo da chiesa, fatto galleggiare nel cosmo da strati di sintetizzatori futuristici, deformato da collage vocali meccanici, filtrato come se venisse cantato da qualche altura in mezzo al deserto, o da qualche spettro in contatto dall’aldilà, propulso da pianoforti scordati al tempo di tango o rumba, trafitto da ogni tipo di rumore (motori, tuoni, sibili), manipolato mediante nastri come da precetto della musica concreta. In “Rumba y bomba de Dolores Flores” si sposa addirittura a un ritmato electropop di stampo alternativo, con un risultato piuttosto contagioso, in quello che è forse l’unico momento davvero orecchiabile dell’opera.
I brani in scaletta sono tutti cover e adattamenti, e nei casi in cui è noto l’interprete o l’autore originario, Niño decide di inserirlo direttamente nel titolo, in modo da dargli più risalto possibile (pur volendo abbatterne le barriere, l’artista si mostra al contempo profondamente appassionato e rispettoso della storia del genere).
L’apertura, con “Soledades de la pereza”, è una dichiarazione di intenti: rimescolamento di un canto tradizionale, si apre con l’insistente rumore di un trapano, su cui un’anziana voce femminile, rotta dal peso degli anni, intona una nenia ipnotica. Dopo un graduale accumulo di droni elettronici, emerge la possente voce del Niño, che ripete la melodia iniziale, come se fosse in diretta da un futuro oscuro e distante.
Ogni brano ha dietro una storia, ogni brano prende distanza da quello che l’ha preceduto: “Saetas de San Juan de la Cruz” sono due minuti di canto gregoriano deformato dall’eco, di una cupezza soffocante; “El tango de la Menegilda”, per pianoforte e voce, rivisita la musica di uno spettacolo teatrale del 1886, “La gran vía”; “El prefacio a la Malagueña de El Mellizo” è una lunga planata mistica dominata dall’organo da chiesa, che ribalta un flamenco composto da Enrique el Mellizo nel tardo Ottocento.
Non c’è tuttavia spazio solo per lo stravolgimento: Niño de Elche non è un mero iconoclasta, men che meno un “punk del flamenco”. Come accennato, le sue creazioni rappresentano anche un atto di amore per il genere, sia che mirino a espanderne i confini conosciuti, sia che si muovano al suo interno. “Caña por pasodoble de Rafael Romero El Gallina”, dal repertorio del cantore gitano scomparso nel 1991, è per esempio piuttosto fedele all’originale. “Polo de Manuel de Falla”, dalla magica penna del compositore andaluso, ne mantiene pressoché intatto l’arrangiamento pianistico.
Verso il termine della scaletta spuntano brani che non hanno nulla a che vedere con la cultura andalusa o più in generale ispanica, ma che si amalgamano piuttosto bene a ciò che li ha preceduti. Si pensi all’abisso dark ambient della “Petenera de Shostakóvich” (adattamento del “De profundis” del compositore russo) o alla “Deep Song de
Tim Buckley” (nientemeno che una traduzione di “Lorca”, con virtuosismi vocali impressionanti, degni dell’originale).
Alla fine, il dubbio sorge spontaneo: ma è poi così necessario conoscere l’abc del flamenco e delle sue colonne più avanguardistiche, per addentrarsi nei meandri di quest’opera? E se invece fosse proprio questo il punto più adatto da cui partire per un ascoltatore contemporaneo di musica underground, andando poi a ritroso?
L’unica certezza è che questa antologia del Niño si impone come opera enciclopedica, capace di fare summa del passato e catapultarlo verso lidi ignoti. In altri tempi, gli avremmo probabilmente affibbiato il pesante titolo di manifesto culturale.
01/08/2018