Non c'è più tempo per i concept, per le astrazioni siderali e le metafore complesse, a casa Richard. Conclusa in chiave più che positiva la sua articolata trilogia sulla sconfitta e la redenzione, è giunta l'ora di voltare pagina, di rimettersi in pista e avviarsi verso nuovi orizzonti creativi. D'altronde, per un'anima inquieta come lei, toccare lo stesso lido per due volte è una trasgressione che non è lecito prendersi, a maggior ragione se la vita ti porta a percorrere strade impensate. Così, archiviati i temi futuristici e le ambientazioni ultraterrene, è giunta l'ora di tornare a casa, di piantare i piedi saldamente a terra. Soprattutto, di guardare a lungo dentro e dietro di sé, alle proprie convinzioni, ai propri desideri, specialmente alle proprie origini, testimonianza di uno straordinario meticciato culturale e genetico.
Su questi pilastri, condensati in uno dei progetti più brevi della sua carriera, si fonda la nuova stirpe di Dawn Richard, un ciclo di canzoni che appiana le forme più convulse e sperimentali della trilogia, a favore di una commossa dedica nei confronti della sua New Orleans e del suo impressionante patrimonio culturale. Funk e r&b, apparentemente trattati in maniera più convenzionale, diventano l'alveo stilistico prescelto con cui la formidabile sperimentatrice tira fuori la sua collezione più diretta e immediata, una raccolta con cui parlare del legame unico con la sua città, ma anche attraverso cui affrontare di petto gli scogli da lei superati in una vita di rinunce, voltafaccia, tristezze. Se però la copertina sta a indicare qualcosa, è che quel passato, per quanto doloroso, è ormai alle spalle.
Col copricapo indossato esclusivamente dai capi della tribù Washitaw, di cui è diretta discendente, Richard mette in chiaro di non avere paura a esibire la sua straripante ambizione, di essere il re tra le regine, adoperandosi per superare steccati e limitazioni di genere. È una lettura femminista che senza alcun dubbio informa l'intero lavoro, che invita a riconsiderare la percezione non sempre propizia che accompagna le musiciste black, che contemporaneamente non si chiude a riccio su slogan ritriti e affermazioni abusate, spingendo oltre il suo messaggio (l'estratto di un'intervista a Grace Jones, nel mezzo della serratissima title track, la dice lunga). Se non altro è l'occasione per togliersi qualche fastidioso sassolino dalla scarpa e mettere a tacere chi probabilmente la vedeva già sepolta dalle sabbie della memoria.
Con un'esuberanza insolita nella sua musica, priva dei vincoli espressivi che alteravano (per quanto splendidamente) l'approccio alla composizione e agli arrangiamenti, in “New Breed” Dawn si muove nella più totale libertà, abbattendo confini di genere e contesto, fornendo respiro e confidenzialità del tutto rinnovati alla propria musica.
Non che nel mentre la musicista abbia rinunciato alla sua magmatica miscela elettronica, al potere dei sintetizzatori e del programming al computer. A questo giro, però, lo utilizza per mostrare quale sia il fermento della città della Louisiana, quanto passato e presente siano legati in un abbraccio indissolubile, senza soluzione di continuità: le radici più profonde della sua città (il pianoforte jazz che accompagna “We, Diamonds”, gli aromi cajun/caraibici che sottintendono alla schietta confessione di “Jealousy”) si sposano alla modernità del bounce, della house e del rap, punti cardine della nuova espressività musicale della città.
Una miscela che Richard sa come personalizzare senza inciampare in riferimenti troppo scontati o banali mix retro-futuristi: col soccorso di Hudson Mohawke e altri co-produttori, la visione dell'artista prende quota con grande confidenza e carattere, al costo di risultare addirittura fin troppo particolareggiata e dispersiva, un pot-pourri stilistico senza baricentro. È alla statura interpretativa di Dawn, perfettamente cosciente della sua caratura vocale, che tutto fa capo, è grazie ad essa che l'intera operazione riesce a non perdere di corpo.
Diretta nell'esibire la sua straripante sensualità (la frizzantezza electro-funk, dal leggero tocco house, di “Shades”), capace però anche di un vellutato romanticismo (i chitarrismi virati in chiave tropical/chillwave di “Dreams And Converse”), Dawn Richard pone se stessa al centro del suo progetto, fierissima di mostrare le proprie cicatrici, di raccontarsi negli errori di percorso, di mostrare la sua lunga storia nei quartieri e nelle strade di New Orleans. È un re fiero, che non si dimentica di essere stato soggetto a compromessi umilianti e a giudizi sprezzanti (“Vultures | Wolves”, riferita ai fantasmi del passato e ai predoni dell'industria discografica), ma che non ha più paura di celebrarsi, di esultare delle sue conquiste, di una ritrovata semplicità.
C'è chi da questo composito affresco pop non ricaverà troppo, chi rimpiangerà le articolate stratificazioni della passata trilogia. In questo peculiare back to basics, in questo ritorno a costruzioni melodiche più trascinanti e familiari, Richard si connette però all'essenza più profonda del suo essere, a una femminilità e a una blackness qui esaltate all'ennesima potenza. Priva di ogni timore, la musicista ha finalmente deciso di schiudere le porte di casa sua: impossibile declinare un invito così caloroso.
01/02/2019