Arriva a soli sei mesi dalla precedente la seconda e conclusiva parte di "Everything Not Saved Will Be Lost", che con i suoi ottanta minuti totali e la sua grande varietà di suoni appare come l'opera più ambiziosa dei Foals, oltre che una delle più riuscite. Una copertina meno sgargiante di quella di "Part 1", ma più romantica e decadente, con i fiori che si attorcigliano con dolcezza alle croci di un cimitero, all'imbrunire, ha il compito di contenere l'energia promessa dai Foals sin dalla release del capitolo precedente - invero più morigerato in termini di riff e volumi di questa "Part 2".
Che la promessa fosse stata mantenuta era chiaro già dai singoli: "The Runner", solito tiro foalsiano con in più un basso pompato e il pianoforte a fare da rinforzo alle chitarre, ma soprattutto "Black Bull", tesissima che quasi si strappa, adrenalinica e urlata. Ne sottolinea la potenza anche il video, che, così come quello di "What Went Down" intrappolava la corsa di un molossoide, esaltandone con l'alta definizione la tensione di ogni muscolo, immortala un toro imbizzarrito che sfonda un muro di fiori.
"Wash Off" cerca invece di essere la "My Numbers" di questo disco, con il suo math-funk squadrato ma dannatamente fluido, in quella maniera che riesce naturale solo alla premiata ditta Smith (chitarra), Philippakis (basso) & Bevan (batteria). Non siamo ai livelli del singolo del capolavoro "Holy Fire", ma è comunque un gran sentire, e di conseguenza ancheggiare. "Like Lightning" importa il calore di un riff alternative blues nel sound cerebrale della band, tanto da ricordare per un istante i Black Keys; una scelta sulla carta interessante, ma tra le meno riuscite della scaletta.
A "10.000 Feet" spetta il compito di aprire il tris finale, con una ritmica slabbrata e una melodia ascendente un po' scontrosa. Nonostante sia il brano più delicato della partita, "Into The Surf" è probabilmente anche il più ammaliante: atmosfera da mondo sommerso, un arpeggio di tastiere che sembra propagarsi direttamente dalla barriera corallina e il cantato di Yannis avvolgente come un abbraccio.
Chiudono i dieci minuti di "Neptune". Siamo ancora ad Atlantide, o forse nell'iperspazio (che differenza fa?), per una lunga cavalcata elettrica che esplode al centro invece che sul finale, allungandosi altrimenti in attriti chitarristici e sbuffi elettronici prima della catarsi del ritornello caldo e conciliante.
"Part 2" non brilla in ogni sua sezione, come invece possiamo affermare a proposito di a "Part 1", ma conferma l'ottimo stato di forma di Yannis e soci, che, riposte le velleità mainstream di "What Went Down", si confermano grandi facendo quello che riesce loro meglio. Vale a dire un indie-rock matematico e potente, nervoso, talvolta irto, ma ormai familiare, che riconosci al primo accordo.
23/10/2019