Per quanto in pochissimi ci avrebbero forse scommesso, la seconda vita dei Fruit Bats comincia a rivelarsi una modesta quanto concreta promessa. A quell'“Absolute Loser” che nel 2016 rilanciò a sorpresa la piccola ragione sociale di Seattle, si sono nel frattempo aggiunti la raccolta di cover e rarità “The Glory Of Fruit Bats”, il documentario con inediti “Getting In A Van Again” e questo “Gold Past Life”, ideale conclusione di una “trilogia della perdita” inaugurata nel 2014 dallo sconfortante “EDJ”, l’esordio solista del cantante Eric D. Johnson. A suggellare il discreto momento anche manageriale del Nostro, va ricordata la firma del nuovo contratto con una label indipendente ma di alta caratura come la Merge.
“Gold Past Life” – preme dirlo – nelle intenzioni dell’autore chicagoano intende rappresentare anche un nuovo inizio, una ripartenza emotiva a sprofondi introspettivi idealmente archiviati. Difficile dire se si tratti di un bluff da nota stampa, quel che è certo è che lo strappo non sembra riuscire mai del tutto: si sogna e si (ri)evoca a più riprese una nuova estate, ma l’album appare per forza di cose una replica di quelle passate, vissute o vagheggiate che siano. Non è per forza un male, tanto più se con simili registri Johnson è sempre andato a nozze. Vale per la necessaria conferma l’idillio al tramonto che apre i giochi (“The Bottom Of It”), posto che poi, anche nei frangenti più frivoli e spudoratamente seventies come quella title track che fa tanto Supertramp (o Bee Gees, se preferite), un velo di malinconia non manca di fare capolino.
La perfezione dei soft focus di “Tripper” rimane peraltro un ricordo remoto, con la band più prosaica che mai, forse anche più stanca nel diligente rituale del carino eletto a forma d’arte che da sempre ne contraddistingue le gesta. Qua e là si avverte quel po’ di mestiere folk-pop oligominerale (la cartolina bonaria ma priva di squilli di “Ocean”, una “Cazadera” troppo pulitina) ma non pare inconveniente di quelli penalizzanti. Quasi all’altezza del passato scintillante di “Spelled In Bones” si elevano d’altro canto i singalong amarognoli di “Drawn Away” e “A Lingering Love”, che offrono i refrain e i coretti migliori del lotto, mentre con “Mandy From Mohawk”, affiancato dal pretoriano di Ryan Adams, Neal Casal, Eric quasi gigioneggia rispetto ai recenti standard compassati e finisce per ritrovare automatismi apprezzabili che illuminano una seconda facciata piuttosto ispirata (dal downtempo di “Barely Living Room”, in cui la vena dolceamara ha buon gioco, alla chiusa di “Two Babies In Michigan”).
Forte di queste impressioni e necessariamente adeguata a quanto sul conto del songwriter statunitense asserisce oggi l’anagrafe, l’ennesima rimpatriata (col compagno di bisbocce Thom Monahan) alla fiera del già sentito si risolve in un sottofondo musicale senz’altro piacevole. Il che concorre a un risultato non certo epocale ma nemmeno da disprezzare, di questi tempi.
29/07/2019