L'ecolocalizzatore del folk-pop

La svolta per Eric è rappresentata piuttosto dall'allora fidanzata Gillian Lisée, che è tastierista e banjoista negli Orso, side project degli ex-Red Red Meat Brian Deck e Ben Massarella. È proprio lei a presentargli Tim Rutili, che resta favorevolmente impressionato dal ragazzo e decide di concedergli una prima ribalta nell'apprezzato "Roomsound", album di debutto della sua nuova band, Califone. In tour proprio con la compagine chicagoana, Johnson ha modo di farsi notare da altri artisti in ascesa della scena indipendente, a cominciare da Joe Plummer e Sam Beam. È comunque la piccola etichetta di Rutili e Massarella, la Perishable, a offrirgli un primo contratto. L'onore spetta alla sua incarnazione roots, Fruit Bats, che da diletto solista viene estesa a gruppo con tutti i crismi, coinvolgendo anche i sodali di sempre. Della produzione dell'esordio si incarica Brian Deck, ma sono i Califone al gran completo (compreso Jim Becker) a dare il loro contributo in guisa di ospiti.

La celebrazione del carino in virtù della quale il gruppo saprà ritagliarsi i suoi quindici minuti di notorietà trova qui una prima, emblematica, manifestazione. Altrove si prova a movimentare l'affresco introducendo un'elettrica che è maligna solo per esigenze di sceneggiatura ("Buffalo & Dear"), suggerendo un cortocircuito tra sinistre evocazioni e coretti alla saccarina che rilascia un retrogusto asprigno ma non entusiasma più di tanto, oppure con qualche bella nuance armonica in ballate ancora un tantino depresse.
Quella dei Fruit Bats è musica gradevole anche solo caratterialmente, avulsa da qualsivoglia implicazione concettuale ma aromatica il giusto, perfetta come sottofondo disimpegnato (anche in televisione, perché no). Diverse canzoni sono però piuttosto lunghe (cinque minuti o più), una prolissità francamente poco adatta al registro indie-folk-pop e che finisce per appesantire un album alquanto confuso sulla direzione da prendere ("Need It Just A Little" aggiunge sul piatto violini dalle evidenti inflessioni country). L'impressione è quella di una band genuina ma ancora troppo blanda nei suoi slanci sinceri, indecisa su quel che vorrebbe essere per quanto capace di aprire scorci anche deliziosi, come nel simpatico origami pop in falsetto di "Dragon Ships".
Eric prova a proporsi come interprete plasmato nella timidezza e nella dolcezza, ma il suo formulario di cliché - dal ribellismo morbido all'elogio di un'insicurezza ferma all'adolescenza - non convince ancora abbastanza. Le cadenze sono troppo compassate, il tono è più dimesso del necessario e il Nostro eccede nella propria tendenza al nascondino, smorzando un intuito melodico già promettente.

Nemmeno l'espediente della bassa fedeltà ha modo di conferire a questo esordio spunti di vero interesse, così si arriva in fondo con qualche sbadiglio di troppo a referto e non si apprezza abbastanza il parziale rilancio nelle battute conclusive. Il passaggio più pregevole è "A Dodo Egg", ulteriore possibilità di meticciamento tra una caricatura sunshine e uno sghembo ma pungente bozzetto alt-country. Ne esce un piccolo, ardimentoso, pastiche naif che quantomeno incuriosisce e spiazza per via di quella weirdness campagnola non inquinata da vezzi troppo calcolati o posticci.
Echolocation passa sostanzialmente inosservato ma i concerti che seguono, a rimorchio dei Modest Mouse, di Iron & Wine e degli Shins, offrono al gruppo la visibilità che serve a uscire dall'anonimato e regalarsi un'opportunità prestigiosa. Sono proprio questi musicisti a fare da tramite con i vertici della Sub Pop affinché i Fruit Bats entrino a far parte della scuderia. L'agognato contratto arriva nel 2002, in anticipo di un anno sul sophomore, Mouthfuls, in uscita con ben altra promozione nell'ottobre seguente. Strack e Belval sono già usciti dai radar mentre Eric e Gillian (anche co-autrice in un paio di titoli) suonano tutti gli strumenti assieme a Brian Deck, confermato in veste di produttore. Il sostegno della label di Seattle ha già infuso nel gruppo tutta un'altra consapevolezza, il sound appare più limpido e l'incanto trova sin dal primissimo giro ("Rainbow Sign") un'accorata manifestazione di sé. I Fruit Bats non rinunciano a un'impronta prevalentemente acustica, sorta di folk-pop oligominerale, ma il respiro si è fatto più ampio, con esiti meno bozzettistici.

I Fruit Bats continuano a prediligere un'atmosfera soffusamente estatica e mostrano di non avere fretta, evitano il facile colpo a effetto e dilatano le loro genuine elegie pigramente, come nell'illusione che il piacere possa non disperdersi. Nel loro corredo identitario restano saldi una scrittura di pura sostanza e la pregevole cura degli arrangiamenti (magari con qualche effetto elettronico minimale à-la Jason Lytle, come in "The Little Acorn"), l'astensione dall'eccesso e dalla ridondanza. Quieti, silvani, radiosi, in quest'album di transizione confermano la piacevole marginalità del loro stile, ben rappresentato dalla cartolina di "Seaweed", assolata, assonnata e serafica come un pomeriggio al mare, lontano dalla ressa. Dimostrano una volta di più di essere una creatura mite e remissiva come poche, abile a rivelarsi all'occorrenza anche (sonnacchiosamente) estroversa.

Suona tutto assai carino ma, lo conferma "Slipping Through The Sensors", manca evidentemente un po' di sangue e a poco giovano le occasionali, modeste tentazioni folktroniche a rinforzo dell'ennesima cantilena al cloroformio ("Union Blanket"), che certo non entusiasmano. La gemma finale di "When U Love Somebody" vede però i ragazzi destarsi dall'inerzia e dal torpore perché li scopre capaci di qualcosa che assomiglia a un inno, ovviamente adeguato al tenore di questi anni palliducci, ma sincero a sufficienza con il suo superbo messaggio di incondizionata tenerezza.
Eric The Tripper

Il sodalizio sentimentale con la Lisée, frattanto, è già storia vecchia, rimpiazzato dal nuovo legame con la fotografa Annie Beedy, e la compagna di ieri non compare nel ristretto novero dei collaboratori per la terza fatica di studio, Spelled In Bones, a differenza dei rientranti tuttofare Dan Strack e John Byce. A introdurre il disco sono le stesse gracili chitarrine di sempre, ma il fare è assai più disinvolto che in passato e apre squarci melodiosi formidabili, con cadenze non meno felpate che nelle due opere a marchio Shins (un riferimento che con "Lives Of Crime" si fa davvero ingombrante).
Eric si prepara a raggiungere così la propria vetta poetica e di frivolezza, portando peraltro la sua creatura a esibire una tonicità anche ritmica e un crescendo emotivo che in precedenza erano sempre mancati. Non rinuncia tuttavia alle sue pose romantiche ("Silent Life"), abilissimo a bilanciare quel minimo di affettazione con il calore di una prova al solito corale, bandistica e priva di adulterazioni, drammatiche o formali. Il disco si dipana come un'entusiasmante cavalcata, a mezzacosta tra la tradizione e più attuali tentazioni pop zuccherine: un mix irresistibile brevettato da Mercer, ma che anche i Fruit Bats dimostrano di saper maneggiare a regola d'arte.

Johnson dimostra d'esser diventato un valido creatore di suggestioni estenuate, con la perizia di una modulazione nostalgica convincente e per nulla stucchevole. Dalla sua tranquilla nicchia, abbozza con "Born In The '70s" una sorta di formidabile controcanto generazionale in sedicesimo per quelli nati nei Settanta, tutto giocato sulla contemplazione di un piccolo mondo magari non antico (e in parte omologato) ma già irrimediabilmente perduto. Ma con la carta vincente della nostalgia insiste anche la più bella canzone del disco, "The Earthquake Of '73", lo sguardo rivolto dritto all'infanzia senza timori a esibire tutta la propria fragilità, conquistando anzi proprio per via di quel candore impareggiabile, facce pulite, semplicità incoraggiante e sentimento che non scade mai in un patetismo da quattro soldi.
Zampettanti e amichevoli, i Fruit Bats mostrano di aver saputo trarre un profitto enorme dalla contrazione dei minutaggi, con brani assai più agili e a tutto tondo, sfrondati delle tante digressioni decorative fini a se stesse e assai meno dispersivi. Con "Traveler's Song" torna in evidenza proprio quell'impostazione, raccolta sin quasi al parossismo. È questa la dimensione ideale per una band acqua e sapone ma mai sdolcinata, gentile nel tocco e prodigiosa nell'arrivare al cuore del suo pubblico. E sembra davvero suonato dalle esili zampette delle api il folk-pop di "Legs Of Bees", opportunamente ammantato d'un vestitino lo-fi d'occasione, di chitarre giocattolo e quegli zuccherini impasti vocali, elogio domestico in tonalità pastello e proverbiale risposta delle (ideali) camerette nordamericane a quelle svedesi e scozzesi, con un garbo che sarà pure un tantino rustico ma che nondimeno riesce contagioso. Quel senso di meraviglia intima è indossato anche da una title track che rallenta i giri con decisione, alla ricerca di una pace del cuore e della mente invidiabile, riflesso forse più evidente dell'indole tranquilla dei musicisti trapiantati a Seattle: la gratitudine permea il finale e suggella un album serafico, tutto giocato nel segno della pacificazione.

Il riallestimento dei Fruit Bats avviene nel 2008 con una line-up completamente rinnovata che comprende Ron Liberace Lewis aka Ghost Stories (tastiere, synth, chitarre e cori), Sam Wagster (chitarre e cori), Christopher Sherman (basso) e Graeme Gibson (batteria e percussioni), quest'ultimo già collaboratore dei Califone e futuro membro dei Disappears. Il nuovo album, quarto del catalogo, arriva nei negozi nell'agosto dell'anno seguente, con graditi ospiti di ritorno il mecenate di un tempo, Tim Rutili, la sua spalla Jim Becker e la vecchia fiamma Gillian Lisée. Il titolo, The Ruminant Band (con l'aggettivo che può essere inteso come "ruminante" o "riflessivo", a seconda del grado di ironia), è tutto un programma.
Il gentile miniaturista pop-folk alla guida del gruppo redivivo non aveva lanciato avvisaglie, né in merito al ritorno, né a proposito di un primo, parziale, riposizionamento espressivo, guardando per una volta più al calderone degli anni Settanta (quelli del mito Harry Nilsson) che non ai soliti, abusati sixties. Sceglie inoltre di fare un mezzo passo indietro, suonando il minimo indispensabile in studio e concedendo la giusta ribalta a musicisti che non esita, intervista dopo intervista, a definire talentuosi. Le sorprese sono insomma numerose, per quanto non portino forse alla svolta sperata. Dopo l'imbarco da controfigura di James Mercer sul vascello Shins, un anno e mezzo prima, il Nostro cerca ora una dissimulazione delle proprie spoglie anche alla testa del suo giocattolo. Nei brani che aprono e chiudono il disco, "Primitive Band" e "Flamingo", sono suggerite per sommi capi le linee generali di una significativa revisione, non relativa al solo piano stilistico quanto piuttosto a quello relazionale. Uno scartamento in un certo senso, uno spostamento per vie orizzontali verso una prospettiva meno definitiva e più incerta, nebulosa. Le due canzoni in questione hanno più il sapore dell'impressione che non della concreta istantanea. La propensione per le tonalità estive è confermata ma quelli abbozzati in questo caso sono sogni più tiepidi, sfumati.

In brani come "Beautiful Morning Light" si fanno più nette certe sensazioni: scarna, sospesa, efficace nel lasciare sprazzi di incanto grazie a un arpeggio spartano come non mai, la canzone è una preziosissima testimonianza in acustico di questa curiosa e ammirevole esigenza di concretezza, votata al taglio di ogni eccesso espressivo. Una prospettiva che a molti cantautori in sedicesimo del presente farebbe parecchio comodo, persino a cavalli di razza come M. Ward. È una sorta di imperativo non scritto. "Tegucigalpa" insiste con questa tendenza all'omeopatia, al rifiuto dell'inessenziale. Stavolta, tuttavia, negli scheletri architettonici di ossicini di pollo si ritrovano scampoli della polpa del precedente, ben più coinvolgente, Spelled In Bones, forse il gioiello più splendente nel repertorio della band girovaga.
Ora però il cambiamento si percepisce, eccome. Nella title track le delicatezze grazie alle quali la compagine si era assicurata quel briciolo di notorietà appaiono ridotte a un'essenzialità che sa di cartolina o di caricatura: apprezzabile l'intento dietetico, gradevole e ben svolta come bozzetto, per quanto forse un po' riduttivo e con Eric eccessivamente impegnato a giocare a nascondino. "Being On Our Own" e "My Unusual Friend" sono frizzantine. Pur riflettendo in buona misura il tono classico dell'autore statunitense, già ne incarnano la sconfessione, per lo stesso motivo appena esposto. Sono pacate, per nulla viscerali ma, grazie al cielo, non si riducono a suonare come meri esercizi di stile. Sfortunatamente non intrigano, però, come vorrebbero.

E poi The Ruminant Band è un disco estivo, placidamente estivo.
L'intesa con i compagni, ad ogni buon conto, si rivela invidiabile e i nuovi Fruit Bats fanno furore soprattutto dal vivo, con performance esaltanti in patria (nelle rassegne Sasquatch e Bonnaroo) e un apprezzato quanto tardivo primo tour europeo, in combutta con i Vetiver. Eric, che nel frattempo ha dato vita a un piccolo festival, l'Huichica di Sonoma, California (ospiti Jonathan Wilson, J Mascis, Bob Weir, Blitzen Trapper e Beachwood Sparks), è determinante per l'ingresso di Ron Lewis nell'ugualmente rinnovata squadriglia Shins, in quella che, almeno per un momento, ha tutta l'aria di una colonizzazione in grande stile. Il ritorno in studio, tuttavia, vede nuovamente per Johnson un ruolo da protagonista incontrastato, affiancato sul piano tecnico da Thom Monahan, produttore di fiducia per Pernice Brothers e Devendra Banhart, e accompagnato solo marginalmente dagli altri musicisti.
Tripper viene pubblicato, ancora per Sub Pop, nell'agosto del 2011.

Ha senso descrivere il gruppo statunitense come felicemente assestato sulle nuove posizioni, anche se il titolo stesso di questa nuova fatica non consente di sciogliere tutte le riserve e lascia intuire che la band sia ancora in viaggio, alla ricerca di una sua identità più definita e limpida. Un passo avanti, comunque, Eric e soci sembrano averlo compiuto, e poco importa se le canzoni sfiorano soltanto la perfezione di quelle di Spelled In Bones: forse la vena non è più esaltante come una manciata di anni prima, forse semplicemente questi ragazzi non hanno più molto da dimostrare in un ambito espressivo nel quale sembrano aver già detto e fatto il possibile, preferendo ora far slittare la loro inconfondibile arte verso territori paralleli, non distanti ma nemmeno così accessibili (e prevedibili, in fondo).
Almeno in parte ideato come un concept, il disco scopre le carte nell'eloquente brano d'apertura "Tony The Tripper", introduzione per l'eroe e ispiratore della vicenda (personaggio reale incontrato da Johnson su un treno) ma anche passaggio emblematico per una cifra espressiva ormai disinvolta e consapevole. La linea è quella di una continuità marcata con le tonalità flou del precedente lavoro, con il profilo pacato, i toni soffusi e trattenuti da tenue acquerello che pure non soffocano il calore un tempo coltivato con vivo entusiasmo.
Ancora una volta il senso di meraviglia traspare, parco ma genuino, in questi motivetti semplici semplici, apparentemente senza troppe pretese eppure gentilmente insinuanti nel loro candore easy-listening mai banale, con la voce inconfondibile di Eric (di quelle che, a seconda dei gusti, risultano deliziose o fastidiosissime) a imprimersi come più rilevante dei tratti anche quando la veste è disadorna, sfuggente ("Wild Honey", molto bella).
Si confermano e si affinano il retrogusto nostalgico ("Shivering Fawn", dove la "Canyon Girl" di ieri si è ormai trasformata in un fantasma) e quel piacere nell'estetizzazione non di maniera, le melodie congelate in un passato elegante illuminato da un sole bianco e freddino, terso ("So Long", sorta di manifesto dei nuovi Fruit Bats).

Morte e resurrezione della band ruminante
Dopo la soddisfacente esperienza di Tripper, per Johnson si apre una fase di incontenibile creatività al di fuori della band. Nel giro di un paio di anni firma la colonna sonora di un documentario e tre lungometraggi - "Ceremony", con Uma Thurman; il fortunatissimo "Our Idiot Brother", con Paul Rudd e Zooey Deschanel; il più indipendente "Smashed", che si aggiudica il gran premio della giuria al Sundance - e ne scriverà altrettante nel biennio seguente. Continua inoltre a dirigere con profitto il piccolo festival che ha creato ed esordisce come produttore, per "Passage Of Pegasus" dei Breathe Owl Breathe e "Animal Heart" della cantante dei Cardigans, Nina Persson.
Poi, all'improvviso, tutto precipita. Eric e la moglie quarantenne perdono durante la gravidanza quello che sarebbe stato il loro primo figlio, a lungo atteso. Il colpo è duro e il cantante reagisce chiudendosi in se stesso. Quasi masochisticamente annuncia la fine della creatura musicale di cui era stato padre e padrone per oltre tre lustri, quindi la coppia si trasferisce a Portland. L'intenzione è di proseguire con nuovi progetti, senza più la maschera di un moniker e di una finta band. Il risultato di questa deriva introspettiva coincide con le sue iniziali, EDJ, nuova incarnazione intimista e nuovo album (in uscita per la piccola Easy Sound).

Si avverte un po' ovunque un senso di alienazione e scarsa lucidità che porta le canzoni a girare in tondo con nulla più che qualche discreta intuizione melodica, senza mai approdare a nulla di concreto. Eric vorrebbe suonare estatico e toccante come l'ex-compagno in casa Shins, Richard Swift, ma alla prova dei fatti lascia abbastanza freddi. Non è proprio un limite di poco conto per un autore spesso appassionato come lui. Anche quando accenna passaggi più smaliziati e apparentemente frivoli, non ha modo di sgravarsi da quelle ombre pesanti e da quell'intonazione monocorde che tedia senza riserve (vedi i synth opachi o il tetro pianoforte dei due filler centrali, "The Magical Parking Lot" e "Salt Licorice").
La magia di ieri vive qui solo di pallide repliche, svuotate della gioia originaria e ridotte a gelidi simulacri di pura follia, esercizi di stile senz'anima e senza nerbo, come in "A West County Girl". La predilezione per il marginale, intanto, ha passato il limite, e l'abitino di elettronica minimal adottato per l'occasione non può che peggiorare le cose, smorzando in partenza ogni ipotesi di coinvolgimento emotivo. Nelle battute conclusive torna quindi l'umore saturnino con quell'impressione di spento piagnisteo, di bruma biancastra, che raffredda ulteriormente l'interesse e vede l'autore statunitense chiuso in una distanza ormai incolmabile. "Child In The Wild" illude solo per un attimo con quel barlume dell'antica leggerezza, non abbastanza per compiere il miracolo e riscattare un disco sconfortante sotto ogni punto di vista. Il finale plumbeo e desolante di "The Mountains On Fire (In The Rearview)", manifestazione quasi autistica di un'inquietudine apparentemente senza più confini, sgombra il campo da ogni residua incertezza e lascia piena libertà allo sconforto.

"From A Soon-to-be Ghost Town" ci riconsegna la band rediviva spigliata come ai bei tempi, sufficientemente ariosa con il brio dettato dal pianoforte e un Johnson tornato in pista con discreto smalto, a optare chiaramente per una sfrondatura in sede di arrangiamento e songwriting così da privilegiare la stessa formula agile degli ultimi Nada Surf, non troppo elaborata ma assai vitale sul piano delle emozioni.
La tonicità dell'opener trova subito conferme in un episodio come "Humbug Mountain Song", se possibile anche più scattante e frenetico. Se l'intento era la diversione, da esercitare per mezzo di un sound incalzante e mediamente vivace, lo scopo può dirsi raggiunto. Al di là dell'epidermide, dietro un schermo di serena imperturbabilità, si intuiscono comunque le fresche cicatrici dell'autore di Chicago in un'opera incentrata per intero sui temi della perdita e della ridefinizione di sé.
La title track rispolvera il vestitino folk e gli automatismi efficaci dei giorni migliori, senza silenziare nel contempo quel fondo di amarezza che in quest'occasione lavora come un pungolo irrinunciabile e serve a conferire quel po' di profondità a scenografie sonore altrimenti prive di spessore. Fragile ma intenso nel suo risaputo romanticismo, Eric non nasconde una vulnerabilità emotiva mai tanto significativa nei quadretti pure ingenui del passato, un sentiero impervio percorso peraltro con l'umiltà e il criterio necessari. La tristezza si percepisce dietro ogni curva ma non ha la meglio, perché è l'orgoglio, in definitiva, a ritagliarsi l'ultima parola.
I Fruit Bats scelgono quindi un ritorno tutt'altro che angusto, più plasticamente (e superficialmente) rock, ma interpretato con una genuinità ancora abbastanza incontaminata, tra corpose intonazioni roots (alla maniera dei Decemberists di "The King Is Dead") e buone scorte di entusiasmo. A tratti sembrano intenzionati a riproporre la loro canonica prospettiva frugale, senza più quella briosa esuberanza che li motivava a voler stupire anche con poco, rimpiazzata stavolta da un disincanto maturo, doloroso ma mai crudo, che ammanta di inflessioni autunnali diversi dei nuovi brani e limita il gioioso virtuosismo in miniatura di ieri per privilegiare uno sguardo più assennato.

Ancorché compassato, il disco riesce generalmente fresco e partecipato come i suoi predecessori, non schiacciato da un'introspezione raggelante che, riproposta dopo l'esordio solista intestato a EDJ, avrebbe rappresentato un punto di non ritorno per la sua creatura musicale.
Nelle battute conclusive l'invito all'alleggerimento - anche in chiave di auto-motivazione - tende a farsi letterale ("It Must Be Easy") ribadendo la necessità di guardare avanti con ritrovato ottimismo. Una logica che permea anche il congedo di "Don't You Know That", nostalgico ma attento a schivare le trappole dell'autocommiserazione, perfetto per ritrovare la piccola band amabile che conoscevamo. Un po' meno smaliziata e sbarazzina, ma indubbiamente cresciuta sul piano caratteriale, con meno vaporose concessioni alla meraviglia flou e una buona scorta di concretezza in più.
Per quanto in pochissimi ci avrebbero forse scommesso, la seconda vita dei Fruit Bats comincia a rivelarsi una modesta quanto concreta promessa. A Absolute Loser si aggiungono nel frattempo la raccolta di cover e rarità The Glory Of Fruit Bats, il documentario con inediti Getting In A Van Again e quindi Gold Past Life, ideale conclusione di una “trilogia della perdita” inaugurata nel 2014 dallo sconfortante EDJ. A suggellare il discreto momento anche manageriale di Eric, va ricordata la firma del nuovo contratto con una label indipendente ma di alta caratura come la Merge.
Gold Past Life – preme dirlo – nelle intenzioni dell’autore chicagoano intende rappresentare anche un nuovo inizio, una ripartenza emotiva a sprofondi introspettivi idealmente archiviati. Difficile dire se si tratti di un bluff da nota stampa, quel che è certo è che lo strappo non sembra riuscire mai del tutto: si sogna e si (ri)evoca a più riprese una nuova estate, ma l’album appare per forza di cose di quelle passate, vissute o vagheggiate che siano. Non è per forza un male, tanto più se con simili registri Johnson è sempre andato a nozze. Vale per la necessaria conferma l’idillio al tramonto che apre i giochi (“The Bottom Of It”), posto che poi, anche nei frangenti più frivoli e spudoratamente seventies come quella title track che fa tanto Supertramp (o Bee Gees, se preferite), un velo di malinconia fa capolino.
La perfezione dei soft focus di Tripper rimane peraltro un ricordo remoto, con la band più prosaica che mai, forse anche più stanca nel diligente rituale del carino eletto a forma d’arte che da sempre ne contraddistingue le gesta. Qua e là si avverte quel po’ di mestiere folk-pop oligominerale (la cartolina bonaria ma priva di squilli di “Ocean”, una “Cazadera” troppo pulitina) ma non pare inconveniente di quelli penalizzanti. Quasi all’altezza del passato scintillante di Spelled In Bones si elevano d’altro canto i singalong amarognoli di “Drawn Away” e “A Lingering Love”, che offrono i refrain e i coretti migliori del lotto, mentre con “Mandy From Mohawk”, affiancato dal pretoriano di Ryan Adams, Neal Casal, Eric quasi gigioneggia rispetto ai recenti standard compassati e finisce per ritrovare automatismi apprezzabili che illuminano una seconda facciata piuttosto ispirata (dal downtempo di “Barely Living Room”, in cui la vena dolceamara ha buon gioco, alla chiusa di “Two Babies In Michigan”).
Forte di queste impressioni e necessariamente adeguata a quanto sul conto del songwriter statunitenseasserisce oggi l’anagrafe, l’ennesima rimpatriata (col compagno di bisbocce Thom Monahan) alla fiera del già sentito si risolve in un sottofondo musicale senz’altro piacevole. Il ché si traduce in un risultato non certo epocale ma nemmeno da disprezzare, di questi tempi. Questo, almeno, fino al prossimo colpo di scena della talentuosa controfigura Eric D. Johnson.
Nell'arco di meno di due anni il musicista sorprende non poco i fan, prima depistandoli con una curiosa e intelligente rilettura di Siamese Dream dei Smashing Pumpkins, successivamente come membro dei Bonny Light Horseman, trio formato da Eric, Anaïs Mitchell e Josh Kaufman. Ed è proprio dall’amicizia e condivisione artistica con Josh Kaufman che nasce l’album più limpido ed empatico dei Fruit Bats. The Pet Parade è infatti la raccolta più rimarchevole e fluida dei Fruit Bats, oltremodo stuzzicante quando Eric fa tesoro dell’esperienza con i Bonny Light Horseman (la sognante ballata country “Discovering”, ed il folk-pop alla Dylan “All In One Go”).
Eric D. Johnson prende a modello la schiettezza di Harry Nilsson (“Eagles Below Us”, “Holy Rose” ) e la spiritualità di Van Morrison (“Here For Now, For You”), sposandone le virtù migliori nei quasi sette minuti della title track.
A distanza di vent’anni dall'esordio i Fruit Bats mettono a segno piccoli gioiellini folk-pop (“Cub Pilot”), una splendida ballata pianistica (“On The Avalon Stairs” degna dei migliori Supertramp) oltre ad un uno due dream-pop (“The Balcony” e “Here For Now, For You”) di rara intensità, ma fino a quando realizzeranno opere qualitativamente compatte come The Pet Parade e canzoni empie di autentica passione come “Gullwing Doors” e “Complete”, sarà difficile ignorarne l’esistenza.
Contributi: Gianfranco Marmoro ("The Pet Parade")